Come eravamo: il centravanti da Vieri a Balotelli
Da una rapida occhiata ai post presenti in questo blog, avrete potuto capire che chi vi scrive è un inguaribile nostalgico del calcio che è stato e che adesso non è più. In particolare però sono nostalgico, per quanto riguarda il calcio italiano e la nostra amata Serie A, del periodo più florido e prospero della sua ultracentenaria storia: gli Anni Novanta. Un periodo che, per ragioni anagrafiche, ho vissuto di striscio, e di cui ricordo solo gli sgoccioli (gli strascichi della nostra grandeur nell'ultimo decennio del Novecento si sono trascinati fino alla metà degli anni duemila e allo storico trionfo mondiale in Germania).
Che periodo, gli Anni Novanta: allora il nostro campionato era l'Università del calcio, il campionato dove erano convogliati i migliori calciatori e allenatori del mondo, e tutti i presunti campioni in giro per il mondo aspiravano a venire a misurarsi nella Serie A, il campionato più bello e difficile del mondo, perché rappresentava il banco di prova definitivo per la loro decisiva consacrazione a campionissimi.
Ronaldo, Zidane, Shevchenko, Crespo, Savicevic e tanti altri: tutti passavano da qui, dalle nostre grandi squadre, e qui raggiungevano il massimo della loro fama, conquistando non solo l'Italia, ma soprattutto l'Europa: dal 1989 al 1999 la Coppa Uefa fu affare prettamente italiano, e anche in Champions le cose andavano benissimo, visto che ogni anno in finale ci arrivava un'italiana (eccetto le edizioni 1991 e 1999). Per non parlare della nazionale italiana, che in quel periodo era guidata dalla generazione più talentuosa ma più sfortunata di sempre, che non riuscì mai a vincere un Mondiale, conquistato solo dai diretti figli di quella generazione.
Questo post, che scrivo solo adesso, dopo le feste di Natale, sotto la spinta di un amico che mi ha dato lo spunto per metterlo finalmente nero su bianco, nasce in un certo senso all'alba del 25 giugno 2014, quando in bocca abbiamo ancora l'amarissimo gusto della sconfitta, mescolato (mi perdonerete per questa volta per il mio linguaggio poco ortodosso) al sapore rivoltante della figura di merda fatta in campo dai nostri calciatori. Quel giorno non ci sono assolti, tutti sono colpevoli di quel viaggio anticipato verso l'Italia, fuori dalla kermesse mondiale.
La stampa però deve individuare un capro espiatorio, altrimenti i giornali non vendono. E lo trova, perché ce l'ha già bello pronto da un bel po'. Parliamo ovviamente del solito Mario Balotelli, reo di avere la testa altrove, di avere atteggiamenti indisponenti e svogliati sul terreno di gioco che poco si confanno non solo al campione che dice di essere, ma in primis al professionista quale è. Premesso che la posizione di chi parla non è contro Balotelli, ma vede in tutti i 23 calciatori e nello staff intero i responsabili della disfatta azzurra, naturale conseguenza di una spedizione organizzata male da principio e condotta se possibile ancora peggio una volta giunti nel paese sudamericano, i giudizi espressi su Balotelli sono assolutamente veritieri, e non ci sono alibi che tengano per l'attaccante. Un alibi però c'è, a dirla tutta: Balotelli è solo la punta di un iceberg molto più grosso che vede coinvolti tutti gli esponenti italiani del ruolo più decisivo del gioco del calcio: il centravanti.
Da qui quindi il nostalgico "Come eravamo" che dà il nome a questo mio post: un sospiro di nostalgia per i vecchi esponenti del ruolo di centravanti, quelli che adesso quasi non ci sono più, ma che amavamo tanto e che tanto sarebbero utili al nostro calcio malato.
I grandi centravanti italiani... da chi cominciare? Sembra strano, ma la nostra scuola ne ha prodotti in quantità industriale, nonostante nel pianeta calcio noi italiani siamo noti come difensivisti, tatticisti e catenacciari (il che non è del tutto sbagliato), e quindi dovremmo essere "specializzati" in portieri e difensori, coloro che non fanno far gol, piuttosto che in giocatori che devono farli. Eppure, di grandi bomber nel nostro passato ce ne sono stati a bizzeffe, e di tutti i tipi: da Vieri a Inzaghi a Montella fino ai bomber di provincia come Hubner, Chiesa e tanti altri che non cito solo perché non ne ho il tempo, per non parlare degli stranieri che bazzicavano per la A come Shevchenko, Trezeguet, Crespo e quello che, fra i nomi che ho elencato, reputo personalmente il migliore: Batistuta.
Quanti passi indietro sono stati fatti in pochi anni! Nei cannonieri soprattutto, che con rispetto parlando non sono paragonabili all'enorme abbondanza degli anni che furono, salvo la pace forse dei due top players (come si dice oggi, ma che il nostalgico si ostina a voler chiamare con il termine che si usava una volta e che tanto mi piace, ovvero campioni) Higuain e Tevez oppure di vestigia del tempo che fu come Totti e Di Natale, sui quali il peso degli anni comincia inesorabilmente a farsi sentire, come è fisiologico che sia.
Cosa è cambiato nel nostro calcio, per passare (sempre con rispetto parlando) dagli Inzaghi e dai Vieri ai Balotelli, ai Matri e agli Osvaldo? Perché non nascono più campionissimi e perché non vengono più i campionissimi stranieri (perlomeno, non in abbondanza come circa vent'anni fa) nel nostro campionato? La geografia dei soldi è cambiata, vero, e questo spiega il perché i vari Cavani e Ibrahimovic lascino il prima possibile le nostre povere squadre verso lidi che non hanno nemmeno un decimo del blasone delle nostre squadre, e perché i grandi fenomeni del calcio mondiale come Cristiano Ronaldo, Neymar, Bale, Falcao, Robben, Ribery e compagnia scelgano tutti altri campionati europei più ricchi e, di conseguenza più probanti.
Ma non è tutto qui secondo me, sarebbe fin troppo semplicistico. Per spiegarmi meglio mi avvalgo di una delle più famose favole di Esopo, quella della cicala e della formica. Il calcio italiano, i suoi dirigenti e i suoi allenatori, specie quelli giovanili, hanno fatto come il primo animale, abbuffandosi fino all'inverosimile durante la nostra bella stagione, dimenticando però che dopo l'estate viene l'inverno, e per resistergli bisogna programmare il suo arrivo e le contromisure da apportare già quando c'è abbondanza, in modo tale da non restare impreparati. Niente di tutto ciò è stato fatto, come ben sappiamo, in Italia: nessuno ha pensato di creare degli stadi o dei centri sportivi d'avanguardia che siano di proprietà delle società calcistiche, nessuno ha cercato di investire sul merchandising e di ampliarlo verso nuovi mercati, nessuno ha pensato di potenziare i settori giovanili e scolastici, in modo tale da non perdere delle risorse importanti come i ragazzi, che avrebbero potuto diventare i campioni del domani. Zero: ci siamo limitati a goderci i frutti che nascevano spontanei durante gli anni d'oro, e comprare a peso d'oro i "frutti esotici", gli stranieri più forti, già belli e maturi, forti del fatto che il campionato più ricco fosse il nostro. Adesso che però la cuccagna è finita, le formiche spagnole, inglesi e tedesche godono i frutti di anni di lavoro e di briciole che cadevano dalla nostra mensa, mentre per l'ex campionato più ricco e bello del mondo il baratro si fa sempre più profondo.
Figli di questa mentalità sono i nostri calciatori, e in particolare i centravanti, i più rappresentativi fra essi: cosa è cambiato infatti, facendo un paragone diretto fra i vecchi e i nuovi centravanti?
Escludendo da questo paragone nomi come Ronaldo, che essendo uno dei calciatori più forti della storia, è uno di quelli che nascono una volta ogni venti anni se non di più, quindi è difficilmente ripetibile, e Inzaghi, che ha dalla sua delle qualità di intelligenza cinestetica, tempismo e fiuto del gol che sono innate e difficilmente insegnabili ai giovani calciatori; tutti gli altri erano sì molto diversi gli uni dagli altri, ma avevano un comune denominatore che li contraddistingueva: la fame e la voglia di emergere a ogni costo.
Fame e voglia di emergere che hanno manifestato tutti in maniera diversa: Vieri e Montella con il loro girovagare in tutta Italia, sacrificando tutto, a partire dagli affetti, fin da giovanissimi; Shevchenko con l'abnegazione stakanovista negli allenamenti come la scuola Lobanovski insegnava; Batistuta con l'immedesimarsi nei sentimenti della torcida che rappresentava, diventandone ogni volta un beniamino; e Hubner con la semplice voglia di divertirsi senza prendersi troppo sul serio, non rinunciando mai alla sigaretta nell'intervallo.
Calciatori diversi da oggi, che non hanno quella passione genuina per lo sport, quella semplicità e quella umiltà che aiutava a sfondare, perché ti permette di rapportarti meglio con i tecnici, maestri di calcio che riuscivano a scoprire nuovi fenomeni ogni anno. Adesso che il calcio non è più per i professionisti gioco, ma solo un veicolo veloce verso la fama, il guadagno smodato, e che spesso pensano più a festini e veline che a campo e pallone, ecco che i calciatori non mettono in campo tutto quello che hanno, e sono in un certo senso spiegate le figuracce che spesso rimediano in campo. Quanto sono diversi Balotelli e compagni che pascolavano in Brasile da un Bobo Vieri che, come dichiara lui stesso: "sputavo sangue per la Nazionale, uscivo distrutto dopo ogni gara, non ammettevo altro modo di interpretare certe partite. E quelli che tirano indietro la gamba anche una sola volta, non li farei nemmeno più entrare a Coverciano".
Il centravanti di oggi, quindi, è solo lo specchio di una crisi ben più profonda di tutto il calcio italiano (non solo del calcio verrebbe da dire...), dal quale non potrà mai uscire fin quando non smetterà di specchiarsi nella sua grandeur oramai perduta, e cominciare a rimboccarsi le maniche, per costruirsi la base per un nuovo futuro.
SITOGRAFIA IMMAGINI E VIDEO:
http://www.interfans.org/wp-content/uploads/ronnie.jpg
http://www.magliarossonera.it/protagonisti/img_giocS/savicevic10.jpg
http://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2012/06/1034711_10.jpg
http://www2.raisport.rai.it/news/rubriche/moviola/200001/10/387a248802283/07-PARMA-CRESPO2.JPG
http://www.calcioweb.eu/wp-content/uploads/2013/09/shevchenko.jpg
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http://www.as-roma.ru/foto/2010-11/montella/1.jpg
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Che periodo, gli Anni Novanta: allora il nostro campionato era l'Università del calcio, il campionato dove erano convogliati i migliori calciatori e allenatori del mondo, e tutti i presunti campioni in giro per il mondo aspiravano a venire a misurarsi nella Serie A, il campionato più bello e difficile del mondo, perché rappresentava il banco di prova definitivo per la loro decisiva consacrazione a campionissimi.
Ronaldo, Zidane, Shevchenko, Crespo, Savicevic e tanti altri: tutti passavano da qui, dalle nostre grandi squadre, e qui raggiungevano il massimo della loro fama, conquistando non solo l'Italia, ma soprattutto l'Europa: dal 1989 al 1999 la Coppa Uefa fu affare prettamente italiano, e anche in Champions le cose andavano benissimo, visto che ogni anno in finale ci arrivava un'italiana (eccetto le edizioni 1991 e 1999). Per non parlare della nazionale italiana, che in quel periodo era guidata dalla generazione più talentuosa ma più sfortunata di sempre, che non riuscì mai a vincere un Mondiale, conquistato solo dai diretti figli di quella generazione.
Questo post, che scrivo solo adesso, dopo le feste di Natale, sotto la spinta di un amico che mi ha dato lo spunto per metterlo finalmente nero su bianco, nasce in un certo senso all'alba del 25 giugno 2014, quando in bocca abbiamo ancora l'amarissimo gusto della sconfitta, mescolato (mi perdonerete per questa volta per il mio linguaggio poco ortodosso) al sapore rivoltante della figura di merda fatta in campo dai nostri calciatori. Quel giorno non ci sono assolti, tutti sono colpevoli di quel viaggio anticipato verso l'Italia, fuori dalla kermesse mondiale.
La stampa però deve individuare un capro espiatorio, altrimenti i giornali non vendono. E lo trova, perché ce l'ha già bello pronto da un bel po'. Parliamo ovviamente del solito Mario Balotelli, reo di avere la testa altrove, di avere atteggiamenti indisponenti e svogliati sul terreno di gioco che poco si confanno non solo al campione che dice di essere, ma in primis al professionista quale è. Premesso che la posizione di chi parla non è contro Balotelli, ma vede in tutti i 23 calciatori e nello staff intero i responsabili della disfatta azzurra, naturale conseguenza di una spedizione organizzata male da principio e condotta se possibile ancora peggio una volta giunti nel paese sudamericano, i giudizi espressi su Balotelli sono assolutamente veritieri, e non ci sono alibi che tengano per l'attaccante. Un alibi però c'è, a dirla tutta: Balotelli è solo la punta di un iceberg molto più grosso che vede coinvolti tutti gli esponenti italiani del ruolo più decisivo del gioco del calcio: il centravanti.
Da qui quindi il nostalgico "Come eravamo" che dà il nome a questo mio post: un sospiro di nostalgia per i vecchi esponenti del ruolo di centravanti, quelli che adesso quasi non ci sono più, ma che amavamo tanto e che tanto sarebbero utili al nostro calcio malato.
I grandi centravanti italiani... da chi cominciare? Sembra strano, ma la nostra scuola ne ha prodotti in quantità industriale, nonostante nel pianeta calcio noi italiani siamo noti come difensivisti, tatticisti e catenacciari (il che non è del tutto sbagliato), e quindi dovremmo essere "specializzati" in portieri e difensori, coloro che non fanno far gol, piuttosto che in giocatori che devono farli. Eppure, di grandi bomber nel nostro passato ce ne sono stati a bizzeffe, e di tutti i tipi: da Vieri a Inzaghi a Montella fino ai bomber di provincia come Hubner, Chiesa e tanti altri che non cito solo perché non ne ho il tempo, per non parlare degli stranieri che bazzicavano per la A come Shevchenko, Trezeguet, Crespo e quello che, fra i nomi che ho elencato, reputo personalmente il migliore: Batistuta.
Quanti passi indietro sono stati fatti in pochi anni! Nei cannonieri soprattutto, che con rispetto parlando non sono paragonabili all'enorme abbondanza degli anni che furono, salvo la pace forse dei due top players (come si dice oggi, ma che il nostalgico si ostina a voler chiamare con il termine che si usava una volta e che tanto mi piace, ovvero campioni) Higuain e Tevez oppure di vestigia del tempo che fu come Totti e Di Natale, sui quali il peso degli anni comincia inesorabilmente a farsi sentire, come è fisiologico che sia.
Cosa è cambiato nel nostro calcio, per passare (sempre con rispetto parlando) dagli Inzaghi e dai Vieri ai Balotelli, ai Matri e agli Osvaldo? Perché non nascono più campionissimi e perché non vengono più i campionissimi stranieri (perlomeno, non in abbondanza come circa vent'anni fa) nel nostro campionato? La geografia dei soldi è cambiata, vero, e questo spiega il perché i vari Cavani e Ibrahimovic lascino il prima possibile le nostre povere squadre verso lidi che non hanno nemmeno un decimo del blasone delle nostre squadre, e perché i grandi fenomeni del calcio mondiale come Cristiano Ronaldo, Neymar, Bale, Falcao, Robben, Ribery e compagnia scelgano tutti altri campionati europei più ricchi e, di conseguenza più probanti.
Ma non è tutto qui secondo me, sarebbe fin troppo semplicistico. Per spiegarmi meglio mi avvalgo di una delle più famose favole di Esopo, quella della cicala e della formica. Il calcio italiano, i suoi dirigenti e i suoi allenatori, specie quelli giovanili, hanno fatto come il primo animale, abbuffandosi fino all'inverosimile durante la nostra bella stagione, dimenticando però che dopo l'estate viene l'inverno, e per resistergli bisogna programmare il suo arrivo e le contromisure da apportare già quando c'è abbondanza, in modo tale da non restare impreparati. Niente di tutto ciò è stato fatto, come ben sappiamo, in Italia: nessuno ha pensato di creare degli stadi o dei centri sportivi d'avanguardia che siano di proprietà delle società calcistiche, nessuno ha cercato di investire sul merchandising e di ampliarlo verso nuovi mercati, nessuno ha pensato di potenziare i settori giovanili e scolastici, in modo tale da non perdere delle risorse importanti come i ragazzi, che avrebbero potuto diventare i campioni del domani. Zero: ci siamo limitati a goderci i frutti che nascevano spontanei durante gli anni d'oro, e comprare a peso d'oro i "frutti esotici", gli stranieri più forti, già belli e maturi, forti del fatto che il campionato più ricco fosse il nostro. Adesso che però la cuccagna è finita, le formiche spagnole, inglesi e tedesche godono i frutti di anni di lavoro e di briciole che cadevano dalla nostra mensa, mentre per l'ex campionato più ricco e bello del mondo il baratro si fa sempre più profondo.
Figli di questa mentalità sono i nostri calciatori, e in particolare i centravanti, i più rappresentativi fra essi: cosa è cambiato infatti, facendo un paragone diretto fra i vecchi e i nuovi centravanti?
Escludendo da questo paragone nomi come Ronaldo, che essendo uno dei calciatori più forti della storia, è uno di quelli che nascono una volta ogni venti anni se non di più, quindi è difficilmente ripetibile, e Inzaghi, che ha dalla sua delle qualità di intelligenza cinestetica, tempismo e fiuto del gol che sono innate e difficilmente insegnabili ai giovani calciatori; tutti gli altri erano sì molto diversi gli uni dagli altri, ma avevano un comune denominatore che li contraddistingueva: la fame e la voglia di emergere a ogni costo.
Fame e voglia di emergere che hanno manifestato tutti in maniera diversa: Vieri e Montella con il loro girovagare in tutta Italia, sacrificando tutto, a partire dagli affetti, fin da giovanissimi; Shevchenko con l'abnegazione stakanovista negli allenamenti come la scuola Lobanovski insegnava; Batistuta con l'immedesimarsi nei sentimenti della torcida che rappresentava, diventandone ogni volta un beniamino; e Hubner con la semplice voglia di divertirsi senza prendersi troppo sul serio, non rinunciando mai alla sigaretta nell'intervallo.
Calciatori diversi da oggi, che non hanno quella passione genuina per lo sport, quella semplicità e quella umiltà che aiutava a sfondare, perché ti permette di rapportarti meglio con i tecnici, maestri di calcio che riuscivano a scoprire nuovi fenomeni ogni anno. Adesso che il calcio non è più per i professionisti gioco, ma solo un veicolo veloce verso la fama, il guadagno smodato, e che spesso pensano più a festini e veline che a campo e pallone, ecco che i calciatori non mettono in campo tutto quello che hanno, e sono in un certo senso spiegate le figuracce che spesso rimediano in campo. Quanto sono diversi Balotelli e compagni che pascolavano in Brasile da un Bobo Vieri che, come dichiara lui stesso: "sputavo sangue per la Nazionale, uscivo distrutto dopo ogni gara, non ammettevo altro modo di interpretare certe partite. E quelli che tirano indietro la gamba anche una sola volta, non li farei nemmeno più entrare a Coverciano".
Il centravanti di oggi, quindi, è solo lo specchio di una crisi ben più profonda di tutto il calcio italiano (non solo del calcio verrebbe da dire...), dal quale non potrà mai uscire fin quando non smetterà di specchiarsi nella sua grandeur oramai perduta, e cominciare a rimboccarsi le maniche, per costruirsi la base per un nuovo futuro.
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