Un anniversario particolare...

Il calcio è per molti versi lo sport del mondo. Non me ne abbiano i fan di tutti gli altri sport, che pure seguo e mi piace farlo, ma nessuno di essi è penetrato così intimamente nell'umanità come il calcio.
Calcio che è ovunque praticamente: basta affacciarsi alla finestra della propria casa e con ogni probabilità troverete un paio di ragazzini a correre per strada tirando calci a un Super Santos. Anzi, a volte nemmeno quello: perché il calcio è un gioco che ha conquistato tutti, a cui tutti nella vita hanno bene o male giocato, proprio per l'estrema semplicità di giocare una partita. Basta solo un poco di spazio e un qualsiasi cosa da prendere a calci, e il gioco è fatto. Anche quando non c'è il pallone, troverete comunque qualcuno correre e prendere a calci una lattina, una pigna, dei fogli di carta legati alla meglio con lo scotch, persino (storia di vita vissuta questa, fra i banchi della 3ª D alle scuole medie) con un portapenne, cercando di spingere la "palla" in questione dentro una porta immaginaria, spesso limitata dagli zaini, dai soprabiti, dai pali della luce, non c'è limite all'inventiva del calciatore. E per le traversa? Quella era tutto frutto della fantasia, basata il più delle volte sui limiti fisici di elevazione del sorteggiato ad andare in porta (solitamente il più scarso, quindi eccomi bello e pronto!).
Il luogo, come detto, può essere uno qualunque: un cortile, una strada, la palestra della scuola, la parrocchia, una spiaggia, un giardino, insomma ovunque un numero congruo di persone abbia lo spazio per muoversi. Questa filosofia di intendere il calcio, che è stata la chiave affinché questo gioco spopolasse nella working-class inglese di fine Ottocento, si è sviluppata davvero ovunque: e se ci sono ancora oggi luoghi del mondo dove il basket, il rugby, il cricket, il baseball o altri sport sono né più né meno che sconosciuti, in ogni landa sconosciuta della Terra potreste trovare riproposta, pari pari, la scena che vi ho appena descritto.
La mia storia comincia in uno dei posti più lontani che vi possa venire in mente: un bel posto, ricco di spiagge incontaminate che affacciano su un mare favoloso, regalando dei paesaggi assolutamente da cartolina, di quelli che vi ritrovate come impostazioni predefinite sui vostri desktop.

Niente male vero? Immaginate che su queste spiagge ci siano dei ragazzi che appunto giocano a calcio. Non è così difficile, siete stati anche voi protagonisti di una scena simile. Fra questi ragazzi in moltissimi giocano per divertimento, sognando le star della Premier League: perché se uno proveniente da quel paese è veramente bravo, con ogni probabilità è in Inghilterra che va a finire. Ma che sbadato, non vi ho ancora detto dove si trova questa spiaggia meravigliosa! Questa spiaggia si trova su una piccola isola di 10991 km² in cui vivono 2.741.052 persone (dati aggiornati al censimento del 2012) di lingua anglofona che chiamano la loro splendida isola Terra delle primavere, che è la traduzione più o meno letterale del termine in lingua arawak, la lingua degli indigeni Taino originari dell'isola, Xaymaca. Oggi, tutto il mondo conosce quel posto con l'anglicizzazione di quel termine, Jamaica.
Jamaica col calcio c'entra notoriamente molto poco: la nazionale infatti ha partecipato solo una volta alla Coppa del mondo, nell'edizione francese del 1998, e non ci sono certo grandi nomi legati al calcio provenienti dall'isola delle Grandi Antille. Eppure, come detto, la passione non ha confini, ed è forte anche senza risultati di rilievo. Uno spot di questa passione, in un certo senso, è la grande gioia dell'eroe sportivo locale, Usain Bolt, quando ha avuto la possibilità di allenarsi (poteri della pubblicità...) con i grandi campioni della sua squadra del cuore, il Manchester United, alle dipendenze di sir Alex Ferguson, fianco a fianco con Cristiano Ronaldo.
Non è però lui il protagonista della mia storia, per quanto ci sarebbe tanto da parlare su Lightning Bolt, l'uomo più veloce del mondo, che ha polverizzato ogni record esistente nel mondo della velocità: 9"58 nei 100 metri e 19"19 nella distanza doppia, conquistati entrambi ai mondiali di atletica tenutisi a Berlino nell'estate del 2009, tenendo incollati alla TV milioni di appassionati che (faccio mea culpa, anche io sono fra questi) seguono il più nobile degli sport molto poco, soltanto quando ci attirano grossi eventi come i mondiali o i Giochi olimpici (momento del riscatto degli altri sport in un certo senso, visto che lì il calcio conta pochissimo, e mentre l'oro olimpico è l'apice della carriera di ogni sportivo, per il calciatore conta quasi quanto un torneo estivo pre-campionato), guarda caso quando il grande circus del pallone è in pausa.
Colui di cui vi voglio parlare è il simbolo per eccellenza di Jamaica, l'uomo che più di ogni altro ha rappresentato il suo Paese e la sua cultura musicale in tutto il mondo: il re del reaggae Robert Nesta (un nome una garanzia, visto ciò di cui stiamo parlando!), il più delle volte abbreviato in Bob, Marley.
Come è giusto che sia, Bob Marley lo ricordiamo come il grande artista che è stato, la cui importanza nella storia musicale è certificata anche dal Jamaican Order of Merit di cui fu insignito, per la sua denuncia nei confronti del potere, reo di non curarsi dei poveri e degli emarginati dalla cui parte si schierava l'artista.
Bob però, oltre alla musica, aveva un'altra grandissima passione, il calcio. Passione che lo accompagnò sempre: dalla polvere di Trenchtown fino ai break fra una sessione di prove e l'altra con la sua inseparabile band, i The Wailers.
Una passione davvero irresistibile, quella di Bob, alla quale non sapeva e non voleva dire di no. È lui stesso a darcene una dimostrazione:
"Se non fossi diventato un cantante, sarei stato un calciatore... Il calcio significa libertà, creatività, significa dare libero corso alla propria immaginazione".
Un calcio quindi "da strada", di quello in cui non c'è spazio per tattiche, schemi, fuorigioco, difesa alta, marcatura a uomo o a zona, ma di quello genuino che piace ai ragazzi, quello fatto di palla a quello bravo e di lì via in dribbling verso la porta. Fantasia al potere, sempre e comunque. E poco male se poi si fallisce miseramente.
Un calcio dove c'era tutto Bob: le sue canzoni, il suo reggae nel sangue, il suo messaggio di pace, unità, fratellanza, uniche armi per i popoli neri, quelli del terzo mondo, per riuscire finalmente ad abbattere il muro del pregiudizio, della diffidenza, del razzismo, in un epoca dove tutto ciò era ancora vivo e presente, un'epoca in cui era ancora forte il Ku-Klux-Klan, in cui moriva Martin Luther King e cominciava la sua lunghissima prigionia l'altra icona della libertà nera, Nelson Mandela.
Passione per il calcio che cresceva sempre di più, a pari passo con quella con la musica: decisivo fu l'incontro con "Skilly" Cole, il più importante calciatore giamaicano dell'epoca, che gli aprì definitivamente le porte di questo mondo. È anche grazie a Skilly, oltre che alla smisurata notorietà che gli aveva donato la sua musica, che riuscì addirittura ad organizzare un'amichevole col Santos del suo grande idolo, Pele.
Proprio dopo una partita, disputatasi a Parigi il 9 maggio 1977 con la sua squadra tutta estro e fantasia costituita dai Wailers e completata da altri giornalisti francesi, nella quale aveva ricevuto un pestone al piede a causa del quale si staccò l'unghia dell'alluce, che scoprì di essere affetto da un melanoma maligno. Nonostante l'amputazione del letto dell'unghia a cui si sottopose, la malattia non venne curata del tutto e progredì, fino a manifestarsi: Bob, dopo due date trionfali al Madison Square Garden, ebbe un collasso mentre faceva jogging a Central Park. Ricoverato d'urgenza, scopre che il cancro si è esteso ai polmoni e al cervello, divenendo impossibile da trattare.
La malattia lo portò via quindi, troppo presto, a Miami la mattina dell'11 maggio 1981, a soli 36 anni, l'età in cui la maggior parte dei calciatori professionisti o si ritira o comincia seriamente a pensare di farlo. Calciatore nell'anima quindi Bob Marley, che adesso riposa a Nine Mile insieme alla sua Gibson Les Paul con la quale aveva allietato il mondo, una piantina di marijuana con la quale era solito allietare di tanto in tanto sé stesso, e un pallone da calcio, veicolo prediletto per esprimere creatività e immaginazione, per raggiungere la libertà.
È così che si concluse quindi il breve, ma intensissimo viaggio di Bob Marley. Viaggio che iniziò proprio a Nine Mile il 6 febbraio 1945: ed è così, con la sua sfrenata passione che lo accomuna a gran parte delle persone, specie quelle povere di cui si erse ad araldo con la sua musica, che voglio ricordarlo oggi, nel giorno in cui avrebbe compiuto settanta anni. Oltre che con uno dei suoi più grandi successi, inserito in posizione numero 37 nella Lista delle 500 migliori canzoni secondo Rolling Stone, la più autorevole rivista musicale americana: No Woman, No Cry.



SITOGRAFIA IMMAGINI E VIDEO:
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http://blogs.20minutos.es/el_10_futbol/files/2011/01/bolt_174346t.jpg
http://www.bobmarley.com/wp-
https://socialfootballtv.files.wordpress.com/2012/06/6a00d8341c7a9753ef0111684c0b68970c-800wi.jpg
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