Gli ultimi giorni di Carmelo Imbriani

<<Ho sempre pensato di essere un privilegiato. Lo è ognuno di noi, quelli che ce l'hanno fatta, anche se spesso lo dimentichiamo. Troppo spesso ci passa dalla testa il pensiero che sì, abbiamo avuto un gran culo. Perché nella nostra vita siamo stati ciò che, almeno per un po', ogni ragazzino italiano sogna di essere: un calciatore. Abbiamo avuto il privilegio di vivere di passione, dono riservato agli artisti, ai grandi. Noi che grandi il più delle volte non lo siamo, se non grandi dello sport. E qualcuno ci scusi, se è poco.
Un sogno, quello di poter vivere di calcio, ciò che tutti gli altri fanno per gioco un'oretta la settimana, la sera dopo il lavoro. Per me ha smesso di essere un gioco a 13 anni, quando ho dovuto salutare casa mia, mamma e papà. Poco male però: perché stavo già scalando la mia Scala per il Paradiso, quella che cercavano i Led Zeppelin. E l'ho scalata: perché si aprirono per me le porte del Centro Paradiso. Niente di trascendentale o di etereo, attenzione: la cosa è molto più immanente di quanto pensiate. Ma è bellissimo lo stesso: perché il Centro Paradiso si trova a Soccavo, quartiere della periferia nord di Napoli, e io ero entrato a far parte delle giovanili della squadra azzurra! Ero felicissimo, e mi tremavano le gambe a pensare che, a pochi metri da me e tanti altri ragazzini pieni di speranze e di sogni come il sottoscritto, si allenavano Maradona e Careca...

Ma non ho molto tempo per pensare a loro: anche io, come quei campioni che vincono campionati e coppe come mai prima d'ora aveva fatto questa squadra, avevo i miei campionati da disputare, le mie partite da giocare, i miei gol da segnare. E, per grazia di Dio, ne facevo tanti. Così tanti che il mio nome cominciavano a conoscerlo in parecchi, che quando mi incontravano mi chiamavano, mi salutavano e mi facevano gli auguri...
Ma fra i tanti, tantissimi che ormai avevano imparato il mio nome, speravo sempre che ci fosse anche lui: colui dalla cui bocca, sempre munita di sigaro che manco Che Guevara ne fumava così tanti, speravo di domenica in domenica uscisse fuori il mio nome, prima o poi.
E quel giorno arrivò: era il 27 febbraio 1994, al San Paolo veniva a giocare il Cagliari; e a un certo punto quella voce con marcato accento della Versilia, quella di Marcello Lippi, che fino ad allora avevo ascoltato solo in maniera distratta, mi dice: "Carmelo, tocca a te".
Stentavo a crederci, eppure era vero. Già me li immagino al mio paese, Ceppaloni, fra le cui piccole stradine fra i monti e le sue 3000 anime avevo lasciato il mio cuore, a festeggiare perché al 77' di Napoli-Cagliari scattava l'ora dell'esordio assoluto in Serie A di Carmelo Imbriani, che subentra a Jonas Thern. Una gran bella soddisfazione, giocare in quel Napoli: Maradona e Careca non c'erano più, è vero, e la cronica mancanza di soldi nelle casse societarie spinse a fare di necessità virtù, e in squadra con me c'erano tanti altri ragazzi giovani, campani come me: c'era Batman, Pino Taglialatela; c'era l'avvocato Fabio Pecchia; e poi un ragazzo di ventun'anni, difensore, che da attaccante ero lieto di avere in squadra con me, altrimenti con lui come avversario avrei rimediato parecchie brutte figure: Fabio Cannavaro. Un gruppo di ragazzi, di amici veri: e fra loro c'ero anche io, Carmelo Imbriani.
Ma a diciotto anni, come tutti gli altri diciottenni, ero avido, affamato, e non volevo fermarmi mica lì: trovai sulla mia strada un uomo che viveva di calcio, come me, e che come me aveva lasciato da tempo casa sua, la Jugoslavia, per inseguire il suo destino, quello di insegnare calcio in tutta Europa. Questo zingaro del pallone, Vujadin Boskov, credeva in me. Non so cosa lo abbia colpito in particolare, ma fatto sta che ripose in me molta più fiducia di quanto osassi immaginare all'inizio, e mi fece giocare titolare. E io non avevo alcuna voglia di tradirlo: per lui, la squadra e i compagni davo anche l'anima in campo, e le prestazioni cominciarono a essere davvero incoraggianti, con gol e assist che premiavano la mia abnegazione. Questi furono anche il mio pass per continuare la mia scalata: tappa successiva la Nazionale under-21 di Cesare Maldini: ero fra i 20-25 giovani calciatori più forti d'Italia!
Non fui mai però fra gli undici: davanti a me c'era un romano fortissimo, troppo bravo anche per me e per la mia voglia di scassare il mondo. Purtroppo, quando quello che tu ottenevi dopo anni di allenamenti lo vedevi fare senza sforzo alcuno da quest'altro ragazzino, capisci che fin quando ci sarà lui il tuo posto sarà la panchina. Però ci andavo anche d'accordo con questo qui, questa montagna impossibile da scalare che mi separava dalla maglia azzurra: ricordo ancora adesso il suo nome. E d'altronde come potrei dimenticarlo, se una domenica sì e una no in TV si celebra l'ennesimo gol di Francesco Totti?
Ecco, Totti è tutto ciò che avrei potuto essere, ma non sono stato. Ovvero: una bandiera della sua squadra d'origine, la Roma, un calciatore incredibile, vincitore di campionati, titoli, riconoscimenti e dell'ambitissima Coppa del mondo...
Io invece, Carmelo Imbriani, coetaneo del "Pupone", la risposta napoletana a Totti come qualcuno aveva detto, con toni trionfalistici che rasentavano la stoltezza (perché questi signori qua, invece di dire stupidaggini simili, non si son fatti due domande sul perché Maldini facesse giocare sempre lui e non me?), ho avuto una parabola professionale decisamente più bassa: la Serie A infatti l'ho abbandonata pochi anni dopo il mio esordio, per non tornarci mai più, vivendo in varie piazze il tran-tran che mi portava su e giù fra la Serie B e la Serie C. Attenzione: un profilo basso non è sinonimo di infelicità, tuttaltro: sono felice di quello che ho fatto in piazze sì piccole, ma decisamente passionali e innamorate. E poi ho avuto l'onore di giocare, anche se in Serie C1, per il Benevento, la squadra della mia città. E non c'è cosa più bella. In questo io e Francesco siamo simili: anche lui ha detto no a molti trofei che avrebbero arricchito maggiormente la sua bacheca, pur di restare a Roma. Sì, tutto sommato non posso lamentarmi: Totti ha avuto molto più di me dal calcio, ma io sono altrettanto felice: sono tornato a casa mia, che mi ha accolto e non mi ha fatto più partire, neanche quando a 33 anni ho detto basta, offrendomi la panchina della squadra Allievi e poi della prima squadra. E poi, qui ho trovato Valeria, la donna più bella del mondo, che vale cento Ilary per me, e oltre a noi due adesso c'è anche Sofia e, fra un po', pure Fernando.
Mi chiamo Carmelo Imbriani, ho trentasei anni, e sono felice.

C'è solo un piccolo problema, qui sulla Sila, in Calabria, dove sono con i miei ragazzi in ritiro per preparare una nuova stagione: mi sento sempre più debole. Finché un giorno, che di estivo aveva solo la data, il 20 luglio, ma che in realtà manda giù un acquazzone di quelli biblici, e un freddo che sembra metà Novembre, non ce la faccio più e cedo a questa spossatezza, e alla febbre a 40 che mi debilitava. I medici sentenziano: broncopolmonite, riposo assoluto, devi lasciare il ritiro. Uno di loro però è parecchio scrupoloso, e mi manda a Perugia per dei controlli.
Il responso è di quelli che un padre di una figlia piccola, e di uno che ancora deve arrivare, non vorrebbe mai sentire: Linfoma di Hodgkin.
Ecco, è come se fossi di nuovo all'Under 21: proprio quando ero agli inizi di un sogno, di una carriera che poteva sbocciare e fiorire, ecco che arriva qualcuno a fermarmi. Solo che stavolta non è un altro ragazzo come me, pur se predestinato. Non è Francesco Totti da Porta Metronia il mio rivale, è assai più cattivo, infame, bastardo, crudele. Un duro avversario, un brutto animale ¹. Perché dopo tutto ti sembra brutto, doloroso. Anche ciò che, mi dicono i medici, dovrebbe farmi bene, aiutarmi, rimettermi in sesto. La chemio è terribile, e il dolore è lancinante, ti perturba il fisico e il tuo stesso essere, non ti riconosci più. Ti guardi allo specchio e piangi, ti chiudi in te stesso, non vuoi farti vedere da nessuno. Io, Carmelo Imbriani, che per vent'anni della mia vita sono stato un atleta, che viveva grazie alla prestanza fisica e al bell'aspetto che Dio mi aveva donato, e ho curato tutto il tempo per mantenerli costanti, adesso sono un relitto: non avrei voluto farmi vedere senza capelli, così secco...¹

"Sono il rifiuto dei miei nemici
e persino dei miei vicini,
sono il terrore dei miei conoscenti:
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono come un morto, lontano dal cuore;
sono come un coccio da gettare."


Ma poi è nato Fernando: e ho riscoperto cosa volesse dire essere felici. Ho riabbracciato Sofia, che ha detto ancora una volta che sono "il papà più bello del mondo". Nonostante tutto questo. E allora ho capito che mi stavo ammazzando ancor di più. Ho capito che non devo vergognarmi per una malattia, ma affrontarla con determinazione ¹. È stato ciò che ho provato a fare, nonostante fossi sempre più stanco e incapace di tornare alla mia vita precedente, sul campo di calcio, parlando di me e della mia malattia ai giornali, tornando dai miei ragazzi, al Benevento, per salutarli e ricordare loro che hanno un tifoso in più per cui vincere. Non ce l'avrei fatta da solo: ancora una volta capii quanto ero stato fortunato, poiché nessuno mi ha mai lasciato solo, nemmeno quando non avevo voglia di parlare con nessuno, sempre arrivavano le telefonate di Martinez, il mio vice e sostituto al Benevento, e di Pino Taglialatela. Quante volte ho cercato di sbattergli la porta in faccia, nel tentativo di restare solo. Lui però è stato uno che con le porte aveva un feeling speciale, e ho scoperto che era capace di aprirle sempre, e farlo con la stessa maestria con la quale, in campo, le serrava agli avversari, anche quando questi tiravano un calcio di rigore ed erano sicuri di averlo battuto. Si dicono tante cose sul nostro mondo e sui rapporti tra i calciatori, però in questo momento i ragazzi mi danno forza ¹.
Ma non ci sono stati solo loro: tutti coloro che in qualche maniera mi avevano conosciuto, o con cui ho avuto a che fare, magari solo in maniera superficiale, si sono prodigati per farsi sentire, darmi una voce di conforto, farmi forza. Anche Totti mi ha chiamato, per dirmi che sperava in una mia completa guarigione. Proprio lui, Totti, il campione del mondo, la Scarpa d'oro, ancora si ricordava di me, che ho passato una vita calcistica fra Crotone e Benevento, là dove c'è tanta polvere e poca terra. Tutti impegnati in una maratona che mai avevo ritenuto possibile. Scandita tutta in mio nome, con un ritornello fisso e penetrante come i riff di Keith Richards: IMBRIANI NON MOLLARE!
                                 
È il 10 febbraio e io, Carmelo Imbriani, ho appena compiuto 37 anni. Ho capito che, nonostante tutto quello che mi è successo negli ultimi 365 giorni, nonostante le forze che vengono progressivamente meno da quel 20 luglio, in 37 anni ho fatto molto. Nonostante avessi avuto poco tempo: ma un saggio non diceva che "non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto"? E io di tempo non ne ho sprecato, mai. Ho fatto le cose di fretta: in un periodo dove qualcuno con una poltrona fin troppo comoda sotto il culo dice che gli italiani sono bamboccioni e non vanno più via dalla casa materna, io l'ho lasciata da bambino, e ho cominciato a correre, verso il mio destino. Quanti ne ho incontrati sul mio cammino: qualcuno si è fermato prima di me, altri mi sono passati avanti, altri ancora mi hanno accompagnato. Poi mi guardo intorno: ho una famiglia che mi ama, e tanti, ma tanti amici, che mi sostengono sempre, soprattutto adesso, nel momento del bisogno. Sarebbero la mie stampelle per aiutarmi a camminare, se solo glielo chiedessi. Ma non lo faccio, perché sarebbe inutile: neanche con le stampelle adesso riesco più ad alzarmi in piedi... Vedere mia moglie, mio fratello, i miei figli, i miei amici, e tutti quegli sconosciuti che, lo sento, in questo momento stanno urlandomi anche loro, dalle curve degli stadi o dalle poltrone davanti alle TV sintonizzate sui campi di Serie A, mi urlano ancora di farmi coraggio, mi meraviglia sempre. Mi fa anche capire che, se tutte queste persone hanno avuto, anche solo una volta, un pensiero per me, vuol dire che qualcosa l'ho fatta... 
E allora ho capito che no, non era giocare a calcio in Serie A, o allenare la squadra della mia città, ad essere veramente importante, ma l'affetto di cui sono circondato. È questo che io, a 37 anni, e con l'età della ragione ormai raggiunta da un pezzo, chiamo "felicità"
Quindi posso concludere questi miei pensieri così, finalmente: Mi chiamo Carmelo Imbriani, ho 37 anni, e sono felice. 
Adesso però sono ancora più stanco: stanco come non lo sono mai stato prima, devo riposare... 
E poi finalmente capisco: prendo coscienza, come feci a 13 anni, che devo andare. Lasciare tutti qui e partire, di nuovo. A 37 anni sarà meno doloroso che a 13, forse. In molti diranno che è troppo presto, ma io che ho giocato a calcio, prima come seconda punta e poi come esterno di centrocampo, non ho mai imparato ad andare con calma: so solo correre, veloce, per sfuggire via al mio marcatore, e centrare la porta.  
È proprio tutto come allora: io che devo andare, e la donna della mia vita che piange, perché vorrebbe tenermi ancora qui, con sé. Allora era mamma, adesso è Valeria. La sento, in lontananza, che singhiozza. Vorrei dirle di non farlo, che non voglio vederla soffrire. Che vorrei, in cuor mio, restare con lei, ma non posso. Devo andare. È il mio destino, e non posso sfuggirgli. E poi, qui ho ottenuto tutto, e anche grazie a lei sono felice. Ma devo andare, ho una nuova sfida da affrontare, e non posso tirarmi indietro. Vorrei dirglielo, ma non posso. Non ce la faccio. Valeria però è intelligente, e mi conosce meglio di chiunque altro. Le basta un mio sguardo stanco, e capisce tutto ciò che vorrei dirle. Si sforza a sorridere, e io ne sono contento di vederglielo fare ancora una volta. 
Adesso chiudo gli occhi, finalmente posso riposare. Solo un attimo però: lì, davanti a me, scorgo la mia Scala per il Paradiso, che mi ammicca come fece anni fa, e mi invita a salirci su. 
E io la scalo: chissà, magari mi porterà alle porte di un nuovo Centro Paradiso, dove ci sono tanti altri sognatori, come me, con un pallone sottobraccio, che sperano di arrivare a giocare coi grandi...>>



Carmelo Imbriani spirò il 15 febbraio 2013, cinque giorni dopo il suo trentasettesimo compleanno, stretto nell'abbraccio di genitori, fratello e moglie, che lo hanno assistito e coccolato fino all'ultimo momento. Un abbraccio che, dopo l'annuncio della triste notizia, si è fatto enorme, e ha coinvolto tutto il calcio italiano, sui cui campi ha imposto un minuto di silenzio alla sua memoria. Il Napoli e il Benevento, le squadre alle quali è maggiormente legata la carriera calcistica di Imbriani, hanno giocato col lutto al braccio, e i giallorossi hanno intitolato alla sua memoria l'antistadio dove tuttora giocano i ragazzi del Benevento, molti dei quali allenati dallo stesso Imbriani.
Una morte che sconvolge tutti, come accade ogni volta che, a lasciarci in questa maniera così tragica e dolorosa, è una persona così giovane, un padre di famiglia che così tanto aveva ancora da dare ai suoi cari.
Avevo voglia di raccontare questa storia, ma non riuscivo a ridurla a una cronaca, fredda e distaccata. In quanto "scrittore" non professionista, oltre che tifoso della squadra azzurra, non riuscivo ad avere queste qualità necessarie. Perciò ho provato a immaginare cosa possa aver pensato, e come abbia vissuto appunto i suoi ultimi giorni Carmelo Imbriani, e tentato, con le mie scarse capacità, di metterle nero su bianco.

P.S.: Non ho inventato tutto di sana pianta però: a volte ho preferito dar voce al diretto interessato, inserendo delle frasi tratte da un'intervista che lo stesso Imbriani rilasciò al quotidiano partenopeo "Il Mattino" il 28 ottobre, nella quale per la prima volta parlava in pubblico della malattia che lo affliggeva. Gli stralci di quella intervista, che potrete trovare qui, li ho contraddistinti dal resto del post con il simbolo ¹.

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