Un calcio alla paura

Quante volte abbiamo avuto paura? E quante volte avremmo voluto allontanarla via in modo coatto, deciso, come ad esempio prendendola a calci?
Da questa domanda parte la storia di oggi, in un certo senso: un lungo flashback che si risolverà solo facendo scendere in campo quest'ultimo protagonista, la paura. Che un pomeriggio, in Germania, in campo ci scese per davvero.
Navigando su internet ho scoperto, con colpevole ritardo, che l'8 maggio scorso ci ha lasciato Ilunga Mwepu, all'età di 65 anni, dopo una lunga malattia.

In molti non sanno chi sia Ilunga Mwepu: per la verità nemmeno io, fino allo scorso anno, sapevo chi fosse. Lo avevo già visto, certo, poiché era protagonista (anche se non ne conoscevo il nome) di un video su Youtube che, anni fa, mi fece sbellicare dalle risate. Colpevolmente però.
Ma andiamo con ordine: Ilunga Mwepu nacque nel 1949 in quella che è attualmente la Repubblica Democratica del Congo. Attualmente, come già detto: perché nel 1949 il suo paese era ancora noto come Congo Belga, ed era una colonia dello stato europeo. Solo nel 1960 infatti il re Baldovino concesse l'indipendenza allo stato africano, che però non visse anni semplici: lotte intestine fra le varie etnie che convivevano nello stesso, sconfinato territorio, portarono il Paese sull'orlo della guerra civile, e la stessa confusione che serpeggiava fra la popolazione si manifestava anche coi continui cambi della guida (addirittura Patrice Lumumba, uno dei promotori dell'indipendenza congolese, venne giustiziato nel 1961), finché il potere assoluto non finì, nel 1965, a seguito di un colpo di stato, nelle mani di Mobutu Sese Seko. Un nome familiare a noi italiani già dal 1962...
Sì, ma questa è politica - direte voi - cosa c'entra col calcio e con Ilunga Mwepu? Tutto. Siamo pur sempre nel XX secolo, il secolo del calcio, dove tutto si mescola al calcio, in un modo o nell'altro.
Soprattutto la Storia. Specie se essa prende pieghe strane. Quando devia dalla retta via, trascinandosi dietro di sé interi popoli, facendoli precipitare nel baratro della dittatura.
Perché di questo stiamo parlando, di una dittatura: di una dittatura e del suo fautore, Mobutu Sese Seko, che in quegli anni si comportava esattamente come tutti i suoi "illustri" colleghi.
E quindi riservava sempre un occhio di riguardo allo sport come veicolo di propaganda per il regime. E proprio in quegli anni il calcio zairese appariva in salute: il principale club del Paese, quello per il quale giocava proprio Ilunga Mwepu, il Tout Puissant Englebert (tornato alla ribalta cinque anni fa quando, col nome di TP Mazembe contese in finale la Coppa del mondo per club FIFA all'Inter) vinse in quegli anni ben due edizioni della Coppa dei Campioni d'Africa.
Non solo: la Nazionale zairese conquistò in Egitto la Coppa delle Nazioni Africane, segnando 14 gol e subendone 8 in 5 partite.
Era il marzo 1974, e lo Zaire si preparava alla spedizione mondiale, da tenersi nell'estate di quell'anno in Germania, con tanto entusiasmo, e altissime aspettative da parte di Mobutu, che auspicava di dimostrare, tramite il mondiale di calcio, la forza e la stabilità del suo potere.

Evidentemente Mobutu di calcio non era poi un grande intenditore. Non possiamo poi dargli tantissime colpe: anche nella ricca Europa a quei tempi era difficile conoscere le caratteristiche di tutte le squadre che avrebbero partecipato al Mondiale. Internet e le pay TV non esistono, nemmeno in mente Dei, quindi spesso le squadre straniere erano avvolte da un alone di mistero che rendeva queste squadre decisamente sconosciute, e quindi capaci di tutto.
Nonostante questo però, in Europa si sapeva (mentre evidentemente a Mobutu non era giunta voce) che la decima edizione della Coppa del mondo FIFA era il grande palcoscenico del calcio, su quale erano attesissimi altri interpreti; come ad esempio Cruijff e quegli olandesi che negli ultimi anni avevano fatto della Coppa dei Campioni una proprietà privata; oppure Beckembauer e i tedeschi padroni di casa; non di certo lo Zaire dei "temibili" N'Daye e Kakoko.
Tuttavia, i Leopards, soprannome della nazionale africana, vanno in Germania, pronti a giocarsi le loro carte. Vero, sono destinati al ruolo di comparse, ma nel calcio non si sa mai. Dopotutto, quello è pur sempre il mondiale di Sparwasser, tedesco orientale, che batte Maier e regala alla nazionale della DDR lo storico derby mondiale contro i cugini occidentali; o ancora è il mondiale di Lato, capocannoniere del mondiale, che coi suoi centri trascinò la Polonia a un sorprendente terzo posto mondiale.
Insomma, non mancarono le sorprese: ma lo Zaire non fu una di queste.
Billy Bremner, capitano della Scozia, in azione contro Zaire
Zaire che però cominciò non troppo male il suo raggruppamento: il mondiale dei Leopards iniziò il 14 giugno alle ore 19:30; quando la nazionale africana affrontò al Westfalenstadion di Dortmund la Scozia. E non è un impegno semplice, poiché la Scozia non dovete immaginarla come la squadra di adesso: allora infatti la Scozia era una temibilissima formazione, l'unica a non aver mai perso durante le qualificazioni, e che poteva contare su molti calciatori che, in quegli anni, facevano la fortuna del Leeds United, la squadra più forte d'Inghilterra. Furono proprio due calciatori del Leeds, Lorimer e "lo squalo" Joe Jordan (che poi venne a giocare anche al Milan) a firmare i gol con i quali la Scozia sconfisse lo Zaire.
Una sconfitta dunque, ma una sconfitta onorevole, quella per 2-0 coi forti scozzesi. Sotto quindi col prossimo avversario, la Jugoslavia. Ovvero una delle peggiori squadre in assoluto da affrontare in campo internazionale. Perché è una squadra ricca di campioni, di giocatori dalla tecnica sopraffina che sanno trattare il pallone come una nobildonna. Ma soprattutto sono imprevedibili: ogni partita può essere quella in cui sono in giornata NO, e possono perdere in malo modo contro chiunque; ma ogni partita può essere quella in cui sono in giornata SI, e in quel caso non esiste squadra nell'universo calcio in grado di battere la Jugoslavia.
Il 18 giugno, a Gelsenkirchen, gli slavi sono in una delle migliori giornate di sempre, e quella partita finì con un risultato incredibile: nove (NOVE!!!) a zero. E solo perché nel secondo tempo i terribili slavi dimostrarono di avere un po' di cuore, e rallentarono la loro folle corsa, interrompendo il tiro al bersaglio già centrato tre volte da Bajevic, e poi una volta ciascuno da Dzajic Surjak Katalinski Bogicevic Oblak e Petkovic. D'altronde come fai a non provare pietà per questa armata Brancaleone del calcio, quando vedi il loro portiere Kazadi chiedere in lacrime di essere sostituito, poiché non ce la faceva più a reggere il peso dell'umiliazione?
Katalinski batte Kazadi e Mwepu, realizzando il 4-0 per i Plavi
Qui però qualcosa si rompe: da Kinshasa, dove il leader del Paese Mobutu segue stizzito le partite della sua squadra, parte un jet privato diretto verso la Germania. Era diretto all'albergo in cui alloggiava la Nazionale dello Zaire, e trasportava dei militari al soldo del dittatore.
Perché Mobutu non era affatto soddisfatto per quella rovinosa sconfitta. Ma proprio per niente, visto che era andato in fumo ogni proposito di propaganda mondiale. E fece riferire che ogni promessa di ricchezza fatta dal leader ai calciatori e allo staff prima della partenza per la Germania era venuta a cadere.
Il morale, dunque, è sotto i tacchi: e come se non bastasse si torna a Gelsenkirchen, dove ad attendere i Leopards c'è addirittura il Brasile campione del mondo in carica.

Che non è il miglior Brasile di sempre, anzi: della fantastica squadra che dominò il torneo quattro anni prima (qualche parolina in più su quella squadra la troverete qui) era rimasto ben poco, ma era comunque di un altro livello rispetto ai poveri zairesi. Che infatti ne buscano tre anche dalla nazionale verdeoro e chiudono così il loro mondiale con 3 sconfitte, zero gol segnati e 14 subiti.
Tutto qui? No, non è solo di una serie di umilianti sconfitte che è fatta la storia dello Zaire ai mondiali. C'è un altro episodio, passato alla storia, che ancora devo raccontarvi, e del quale è protagonista assoluto Ilunga Mwepu.
E avviene proprio durante la partita col Brasile: siamo attorno all'ottantesimo minuto di gioco, sul risultato di 3-0 per i verdeoro, e Tshimen Bwanga ricorre al fallo da dietro, unica arma a sua disposizione per arrestare la corsa di Jairzinho verso la porta. L'arbitro, il rumeno Rainea, fischia e ordina il calcio di punizione: sta per battere Rivelino; uno dei migliori mancini prestati al gioco del calcio, il quale sa bene come si fa a trasformare in gol una punizione dalla distanza. Lo sanno bene tutti, compagni di squadra, avversari, tifosi e spettatori neutrali, ma amanti dello sport, che aspettano il momento della battuta del calcio di punizione.
Non sapremo mai se quella punizione sarebbe stata la tela sul quale Rivelino avrebbe dipinto il suo ennesimo capolavoro: siamo rimasti tutti, quel pomeriggio di giugno, col dubbio. Perché prima che la punizione venisse battuta si staccò dalla barriera Ilunga Mwepu, che "anticipò" in un certo senso Rivelino e spedì con una bordata il pallone a una cinquantina di metri dal punto di battuta.
L'atmosfera, a Gelsenkirchen, è surreale: c'è un attimo di silenzio, di quelli imbarazzanti poiché in realtà non sai cosa fare, tanto che il colpo di scena è imprevisto. Dopodiché tutto procede normalmente, più o meno, dopo quest'attimo in cui tutti erano sospesi quasi in un limbo, e si guardavano attorno stralunati, quasi a chiedersi cosa sia successo.
A far questo non sono solo i tifosi: è lo stesso Rivelino, che si è visto arrivare a due centimetri scarsi dal volto questa sassata. Nel frattempo accade di tutto: i calciatori dello Zaire si guardano fra loro come se tutto fosse normale, mentre Rainea stizzito mostra, come giusto che sia, il cartellino giallo a Mwepu, entrato suo malgrado nella storia del calcio. Contemporaneamente Jairzinho gli si pone innanzi, deridendolo in maniera spudorata, reazione che accomuna un po' tutti gli spettatori: "Possibile che questi arrivano a un Mondiale e neanche le regole sanno?"
Impossibile; e infatti non è così: Mwepu è un calciatore esperto, pur se non in grado di competere coi grandi calciatori europei e sudamericani, e come lui sono i suoi compagni di squadra.
Se c'è qualche ignorante, quel pomeriggio a Gelsenkirchen, quelli sono Jairzinho e tutti gli altri. D'altronde come avrebbero potuto comprendere quel gesto, apparentemente senza senso?
Mobutu Sese Seko
Tutti brancolarono nel buio, finché anni dopo Ilunga Mwepu non uscì allo scoperto, e disse tutta la verità, che prima di allora sarebbe stato poco saggio rivelare.
E per capire bisogna fare un passo indietro, un piccolo flashback che ci riporta alla vigilia di Brasile-Zaire, quando gli uomini vestiti in cuoio nero irruppero nell'albergo dove Mwepu e compagni erano in ritiro.
Fu a quel punto, dopo aver detto loro che non avrebbero visto un centesimo dei premi FIFA destinati a loro per la partecipazione al mondiale, che arrivò la minaccia: Mobutu sapeva che al Brasile servivano tre gol per ottenere l'accesso matematico alla seconda fase, ai danni della Scozia, quindi annunciò alla squadra che una sconfitta per 3-0 sarebbe stata tollerabile. Non oltre però: perché gli uomini di Mobutu fecero sapere senza mezzi termini ai calciatori che dal 4-0 in poi non avrebbero mai più messo piede a casa, in Zaire. Qualcuno azzardò a chiedere: "E i nostri cari? Le nostre famiglie?"
"Non saranno più affar vostro".
La partita col Brasile, quindi, fu giocata dai calciatori zairesi con una perenne spada di Damocle pendente sulle loro teste, e quel calcio di punizione a dieci minuti dalla fine fu visto come un patibolo, con Rivelino nella veste, pur se inconsapevole, di boia.
Me li immagino lì in barriera quei calciatori, mentre scorrono in slide motion le immagini di tutta la loro vita, dei loro cari, e si interrogavano del futuro: che cosa ne sarà di noi e di loro se quel maledetto pallone finisce in porta?
Ed eccola lì, la paura che si impadronisce di loro, come uno spettro, e quasi li paralizza. Tutti, tranne Ilunga Mwepu, il coraggioso: è la forza della disperazione che lo porta a staccarsi dalla barriera e a calciar via, forte come forse non aveva mai fatto prima, quella bomba ad orologeria che era quel pallone, e insieme ad esso la paura, il terribile destino che li aspettava, la ghigliottina che stava per abbattersi su di loro.
Ilunga Mwepu, quel pomeriggio, fu un eroe.
Perché la partita finì 3-0, la nazionale di calcio era salva, e poté tornare a casa. Povera, malvista, sgradita al popolo e al regime (addirittura dall'aeroporto la squadra dovette farsela a piedi, poiché tutti i taxi si rifiutarono di caricare coloro che, ben presto, divennero l'onta del glorioso Zaire), ma salvi, ed è questo che conta. E poi neppure Mobutu restò a bocca asciutta: ebbe pochi mesi dopo infatti un'altra ghiottissima occasione di far propaganda al proprio regime, organizzando a Kinshasa la sfida fra George Foreman e Mohamed Alì valida per la conquista della cintura di campione del mondo dei pesi massimi. L'incontro, decisamente epico, assurse alla storia della boxe come The Rumble in the Jungle.
E l'eroe Mwepu? Come tutti i suoi compagni, finì dimenticato, poco gradito al regime (addirittura al centravanti N'Diaye fu impedito di andare a giocare in Francia): pur se continuerà a giocare nel Mazembe fino al 1980, vincendo altri campionati nazionali, non sarà più lo stesso. E, come detto, lo scorso 8 maggio è scomparso, dopo una lunga malattia. Mi piace pensare che sia volato via, lontano, nella stessa direzione in cui calciò quel pallone, e con esso la paura.
Un calcio, come l'urlo "tana" da bambini, voleva dire liberi tutti. Perché, purtroppo, Bill Shankly aveva torto: a volte il calcio è davvero questione di vita o di morte.

IMMAGINI E VIDEO:
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