Questione di... dieci: il terzo titolo mondiale del Brasile

Faceva un gran caldo quel 21 giugno, l'inizio ufficiale dell'estate 1970. Un'estate già caldissima prima che sia effettivamente arrivata: prima di quel 21 giugno infatti si è disputata, in Messico, la nona edizione della Coppa del Mondo di calcio, e proprio il 21 giugno alle ore 12:00, sotto una cappa d'afa soffocante, era in programma la finale.
Ultimo atto di gran prestigio: si sfidano infatti il favorito Brasile e l'Italia, reduce dal partido del siglo, l'emozionantissima semifinale vinta per 4-3 contro la Germania. Ed è un gran gala del calcio: non solo per i calciatori, delle vere e proprie stelle del calcio mondiale, che compongono le due squadre. Ma anche perché si sfidano le due nazionali più vincenti della storia della competizione, che possono annoverare due titoli a testa: recenti quelli verdeoro (1958 e 1962), più sbiaditi e sepolti dalla nebbia del tempo quelli azzurri (1934 e 1938). Una sfida attesa in tutto il mondo, oltre che per il fatto in sé della finale di Coppa del mondo, anche perché sull'aereo per Roma o per Rio de Janeiro ci sarebbe salita anche la Coppa Rimet, per non scenderne mai più: chi vinceva infatti per tre volte il titolo di campione del mondo avrebbe avuto il diritto di tenere per sé la copia originale del trofeo, che sarebbe stata sostituita, a partire dall'edizione 1974, da un altro trofeo, quello firmato dall'orafo italiano Gazzaniga, che ancora oggi viene sollevato ogni quattro anni dal capitano della squadra vincitrice.

Due squadre dunque accomunate da un comune destino, come avrete potuto capire, il cui epilogo sarà favorevole a una sola delle due contendenti. Due squadre che sono però profondamente diverse nelle basi di costruzione di squadra e di maniera di intendere e giocare il calcio. Differenze che, soprattutto in quel pomeriggio, furono fondamentale per spostare gli equilibri.
In particolare, darei un occhio di riguardo al Brasile: loro non giocavano un calcio calcolato, tattico. Un calcio italiano in un certo senso, poiché in quello i nostri calciatori e le nostre squadre son sempre state maestre. E chissenefrega se il bel gioco arrivava molto raramente: alla fine si vince? E allora avanti così!
Ed effettivamente in quegli anni si vinceva: la squadra italiana del 1970 era composta infatti dagli scudettati del Cagliari (sì, anche il Cagliari ha vinto uno scudetto... se non conoscete la storia degli undici che fecero sognare un'isola, e seppero condurla sul tetto d'Italia, vi prometto che prima o poi ve la racconterò); dal Milan che l'anno prima vinse la seconda Coppa dei Campioni della sua storia, e che fra le sue fila annoverava il Pallone d'oro in carica Gianni Rivera; e da alcuni reduci della Grande Inter, la squadra che seppe vincere tutto e ripetutamente in Italia, in Europa, nel mondo. Come se ciò non bastasse, l'Italia era campione europea in carica, uscendo vincitrice dalla terza edizione del Campionato europeo di calcio, disputatasi proprio negli stadi del Bel Paese. Ovviamente, anche l'Europeo fu conquistato giocando magari peggio dei nostri avversari, l'URSS e la Jugoslavia, ma poco importa ovviamente, se nell'albo d'oro è scritto il nome Italia e non quello delle due superpotenze dell'est.
L'Italia del 1970: c'erano Albertosi, Cera, Domenghini e Riva per il Cagliari;
Burgnich, Facchetti, Bertini, Mazzola e Bonsinsegna per l'Inter, Rosato per il
Milan (c'era anche Rivera che però non partiva dall'inizio per via della "staf-
fetta") e De Sisti della Fiorentina.
In Brasile, e specialmente nella nazionale brasiliana di calcio che si presentò in Messico nel 1970, tutto ciò non era contemplato. Nel paese sudamericano infatti si ha tutta un'altra idea del calcio: lì il football è evasione, allegria, divertimento, gioia. Il calcio in Brasile non è molto diverso, per le sue finalità, dalla samba (o, alla portoghese, o samba, genere maschile): e in effetti, a vederli giocare, questi brasiliani sembra quasi che danzino, tale che è l'armoniosità e la leggerezza dei loro movimenti, fatti sempre con allegria e assoluta tranquillità, senza pensieri di sbagliare dei movimenti pre-impostati dal loro allenatore.
Per anni i brasiliani hanno giocato così, ottenendo dei risultati tutto sommato anche buoni: tre vittorie al Sudamericano (adesso noto come Copa América) nel 1919, nel 1922 e nel 1949; mentre ai mondiali sono da segnalare il terzo posto in Francia nel 1938 (eliminato guarda caso proprio dall'Italia poi campione) e la finale nel mondiale casalingo nel 1950.
Un passaggio veloce sulla finale del 1950, che per il nostro discorso ha un'importanza centrale: quella del 1950 fu un'edizione particolare del mondiale, che non venne assegnato in una finale secca, ma al termine di un girone finale da quattro squadre. Proprio per questo motivo nell'ultima partita del girone, quella contro l'Uruguay (e universalmente nota come la finalissima del torneo, pur se come detto questa definizione è formalmente impropria), ai padroni di casa sarebbe bastato un pari affinché il capitano Augusto sollevasse la Coppa Rimet davanti ai quasi duecentomila brasiliani assiepati sugli spalti del Maracanã. Solo che i calcoli non entrano in campo, quando ci gioca il Brasile, e nonostante avessero segnato già l'1-0 i brasiliani, schierati con un modulo ultraoffensivo (si giocava ancora secondo i dettami del 2-3-5, detto anche Piramide di Cambridge) non smisero di attaccare, esponendosi così al contropiede degli avversari, che in questa maniera andarono a segnare 2 gol che portarono la Coppa a Montevideo.
Quella partita, passata alla storia come Maracanazo, fu un evento tragico per il calcio brasiliano e non solo, ma soprattutto rappresentava la sconfitta dell'idea brasiliana di calcio, quella di giocare in maniera del tutto anarchica: anche il Brasile aveva bisogno di un'organizzazione tattica.
Titolo di un giornale popolare brasiliano all'indomani della finale persa.
Ma come si fa a trovare uno schema tattico che disciplini l'anarchia tattica dei brasiliani, senza imprigionarla in schemi che nulla avevano a che fare col calcio brasiliano? Nel frattempo arrivano i mondiali svizzeri del 1954, e il Brasile vede interrotta la sua strada ai quarti di finale, eliminato dopo una dura partita nota come Battaglia di Berna, dall'Ungheria.
Dannati ungheresi dunque? Mica tanto: questi ungheresi infatti giocano un calcio che ai brasiliani piace da morire: un calcio che è quello dei loro sogni, quello che dal Maracanazo cercavano di trovare ma non riuscivano. Sebes infatti, col suo modo di mettere in campo i giocatori, era riuscito a conciliare la disciplina tattica - e quindi le distanze fra i reparti, i movimenti da fare in campo e l'organizzazione di gioco - con la fantasia e la creatività che lasciava libero sfogo alle abilità micidiali dei suoi campioni (per avere un mio punto di vista più esauriente sull'Ungheria, clicca qui).
In una ipotetica lista delle cose da fare che si era preparata la federcalcio brasiliana quindi possiamo idealmente mettere una spunta rossa alla voce individuare modello di riferimento. Bisogna passare quindi alla fase due, ovvero trovare un maestro. Qui interviene un altro grande protagonista di questa storia: di mestiere fa l'allenatore di calcio, è naturalmente ungherese, allievo in un certo senso di Gusztáv Sebes e Márton Bukovi, i maestri del calcio ungherese negli anni Cinquanta, come segni particolari segnaliamo una vita avventurosa (della quale qui troverete qualche accenno): il suo nome è Bela Guttmann.
Il quale però ci mise anche del suo: partendo dal modulo del maestro Sebes (un 3-2-3-2 meglio noto come MM poiché la disposizione in campo dei calciatori richiamava le forme di due M) Guttmann apportò delle sostanziali modifiche, che possiamo sintetizzare schematicamente con l'abbassamento di uno dei due mediani sulla linea difensiva, che divenne a 4, e l'avanzamento delle due ali, in modo che fossero in linea con le due punte: si ebbe così il 4-2-4, modulo dalle caratteristiche spiccatamente offensive ma che, con una linea difensiva nutrita come mai prima di allora, riusciva a garantire equilibrio e poche reti subite. Guttmann, in questa maniera, si laureò campione del Brasile 1957 con il Sao Paulo, mostrando a tutti un calcio ordinato come non mai ma anche fantasioso, bello e offensivo come vuole la tradizione brasiliana.
I segni sono chiari, basta solo coglierli: e Vicente Feola, CT del Brasile, lo fa: decide infatti di far giocare così il suo Brasile in Svezia, e otto anni dopo il Maracanazo i verdeoro conquistano il loro primo titolo mondiale; e il 4-2-4 vittorioso in Svezia divenne il modulo di riferimento della Nazionale brasiliana, che lo utilizzerà anche in Cile quattro anni dopo (altro titolo mondiale) e in Inghilterra nel 1966 (eliminazione al primo turno). È proprio all'indomani del mondiale inglese concluso anzitempo che sorgono i primi problemi: parecchie colonne del 4-2-4 e dei titoli mondiali precedenti infatti stanno via via abbandonando il calcio: particolarmente problematici furono i rimpiazzi di Gilmar, il portiere (Felix, il suo sostituto, era con rispetto parlando un buon portiere di palazzo, ma il calcio è un'altra cosa...), di Didì, centrocampista dall'eccellente visione di gioco, che gli permetteva di servire con passaggi calibrati al millimetro i compagni meglio piazzati, che aveva come punti di forza un buon dribbling e una superba capacità nel calcio di punizione, essendo stato uno dei primi calciatori a tirare con le tre dita, conferendo al pallone un effetto particolare che venne chiamato Folha seca, ma soprattutto delle due ali, Mario Zagallo a sinistra e, in particolare, di Mané Garrincha, uno dei più grandi di sempre.
In più, perché i problemi non vengono mai soli, Pele sembrava fosse ormai bollito, tanto che spesso non venne neanche schierato dal nuovo CT Saldanha, che gli preferì più volte il numero 10 del Cruzeiro, Tostão, gran giocatore anch'egli che non tradì le aspettative, risultando il capocannoniere del girone sudamericano di qualificazione ai mondiali 1970.
Pele però non era precisamente d'accordo con Saldanha, tanto che proprio mentre è una "seconda scelta" nella Selecao realizza o milésimo, il gol numero mille in carriera che oscurò, in Brasile, persino il secondo allunaggio della storia, che avvenne proprio nella stessa giornata del gol storico. Quando il calciatore più amato della nazione è ancora in grado di far tanti, ma tanti gol, sai bene che non puoi tenerlo fuori. Ma quando hai tanti altri giocatori fortissimi, quattro perlomeno, che sono anche loro indiscutibilmente fortissimi, allora non sai che pesci prendere, perché sai bene che una maniera per sfruttarli tutti la devi trovare.
Fu questo il problema al quale cercava di trovare affannosamente una soluzione Mario Zagallo, che sostituì all'alba del mondiale Saldanha sulla panchina verdeoro. Sì, proprio l'ala sinistra che vinse due titoli mondiali con la nazionale auriverde nel '58 e nel '62. Di lui Vicente Feola, l'allenatore del primo Brasile campione del mondo, diceva che fosse il calciatore più intelligente del mondo.Quell'intelligenza deve essergli rimasta anche quando è saltato "dall'altra parte", dietro la linea laterale, sulla panchina, perché finalmente ha il colpo di genio: ha a disposizione i cinque numeri 10 più forti del Brasile (probabilmente del mondo), che sono la vera forza del Brasile; quindi la cosa più logica da fare è farli giocare tutti e cinque, abituarli alla coesistenza. E quindi ecco il Brasile che andò a giocarsi i Mondiali in Messico: come detto in porta Felix, davanti a lui la difesa a quattro formata da destra a sinistra da Carlos Alberto, il capitano, uno dei tanti terzini brasiliani fortissimi coi piedi ma "prestati" alla difesa (avete in mente l'ex romanista e milanista Cafu?), Brito, Piazza ed Everaldo; davanti a loro a far da frangifrutti, ruolo al quale si è adattato da quando gioca al Santos, poiché originariamente era un trequartista, Clodoaldo.
Da qui in poi allacciate bene le cinture, perché si sale sulla giostra: affianco a Clodoaldo, più arretrato rispetto agli altri "10", c'è Gerson, trequartista del Sao Paulo ex Botafogo, che dei cinque è quello maggiormente dotato di cattiveria agonistica (in Perù ricordano benissimo un suo fallaccio su Della Torre), ma parimenti dotato di una tecnica sopraffina e di un sinistro che pare in grado di telecomandare la palla, e di mandarla sempre laddove vuole lui; defilato sulla destra Jairzinho, nel ruolo che fu suo agli esordi, quando a 19 anni nel 1965 sostituì nel suo club, il Botafogo, lo stesso calciatore del quale fu il successore anche nello scacchiere di Zagalo, ovvero Garrincha. Una gran bella trovata, quella di Zagalo, visto che quella posizione esaltò le doti di cannoniere di Jairzinho, che a fine torneo fu, con 7 gol in 6 partite, il secondo in classifica marcatori, dietro al solo Gerd Müller.
Al centro, con la maglia numero 9, il già citato Tostão, che fu centravanti inedito ma molto efficace, visto che coi suoi movimenti creava spazi utili per i compagni e, nell'uno contro uno, saltava l'uomo con facilità sfruttando la sua tecnica superiore
Con Tostão l'uomo che avrebbe dovuto sostituire con la numero 10, ovvero O Rey Pele: a dispetto di quanto pensasse Saldanha, Pele era tutt'altro che finito, anzi proprio ai mondiali messicani mise ancor più in mostra tutto il suo talento, sfornando prestazioni di altissimo livello e colpi d'alta scuola che forse mai prima di allora erano stati visti su un campo di calcio, dimostrando uno strapotere fisico e tecnico a tratti imbarazzante nei confronti dei diretti avversari. A completare lo scacchiere un altro trequartista, proveniente dal Corinthans, che però giocava all'ala sinistra: Rivellino, calciatore anch'egli dotato di una tecnica sopraffina, abile nel dribbling (in particolare eccelleva nell'elastico, del quale molti ritengono lui ne sia l'inventore) e soprattutto nelle punizioni da lunga distanza, grazie al suo formidabile sinistro, tale da far entrare Rivellino nell'Olimpo dei migliori mancini mai espressi nella storia del calcio.
Jairzinho-Gerson-Tostão-Pele-Rivellino: cinque numeri dieci davanti tutti insieme, a creare manovre inarrestabili, poiché loro col pallone fra i piedi potevano cose che agli altri erano precluse. Loro cinque furono le armi decisive per il Brasile, che non vinse, bensì stravinse la nona edizione dei mondiali di calcio: furono messe in fila infatti, senza appello, squadre come Cecoslovacchia, Inghilterra, Perù, Uruguay e, in finale, Italia, annientata dalla maggior freschezza atletica e mentale, oltre che dallo strapotere tecnico dei verdeoro, per 4-1.
Italia-Brasile che fu anche una sfida fra due modi di giocare: la marcatura a uomo, un dogma del calcio italiano di allora, si dimostrò inefficace di fronte a questi fantastici calciatori, che grazie alle loro qualità tecniche seppero imbrigliare i nostri difensori, trascinarli tutti da un lato e poi cambiare all'improvviso fronte di gioco, dove c'erano soltanto le maglie gialle dei calciatori brasiliani che si erano inseriti da dietro. Ma detto a parole non rende: meglio farvi direttamente vedere ciò che intendo, sublimato dal gol del 4-1 finale, siglato dal capitano Carlos Alberto.

Ma, fondamentalmente, fu la vittoria di una filosofia su un'altra: così mentre Valcareggi creò la vituperata staffetta per i due giocatori che avrebbero dovuto giocare con la maglia numero 10, ovvero Mazzola e Rivera, assegnando un tempo ciascuno (quasi sempre, poiché proprio in finale a Rivera vennero concessi solo i 6 minuti finali di gioco...), il Brasile non si pose problemi, e ne fece giocare cinque tutti insieme.
Per questo, possiamo dire che il Mondiale 1970 fu, nella sua essenza più intima, una questione di dieci.




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