Dallo scudetto ad Auschwitz - una recensione

Ve lo ricordate Stramaccioni? "L'allenatore bambino", che a soli 36 anni si ritrovò a passare dalla Primavera dell'Inter ad allenare la prima squadra nerazzurra? Un salto incredibile, passare da ragazzini pieni di speranze e di sogni a uomini, quasi coetanei - Javier Zanetti, il capitano, era anche tre anni più anziano - che tutti quei sogni li avevano già realizzati in una notte spagnola di pochi anni prima. Ricorderete anche che l'avventura del giovane Andrea non fu proprio una favola, anzi finì abbastanza male: quella squadra, anziana e matura nei suoi componenti, si rivelò quasi "adolescente" nel modo di stare in campo e di esprimere il proprio gioco, passando dalla vittoria per 3-1 contro la Juventus, che non conosceva sconfitta in campionato addirittura da due stagioni prima, al 2-5 subito a San Siro contro la più modesta Udinese. Proprio come gli adolescenti appunto, che passano in un nulla dall'entusiasmo alla depressione. Il tutto sfumando lievemente verso un piazzamento di metà classifica, senza infamia e senza lode, fuori dall'Europa sul cui tetto quella stessa squadra era salita non più di tre anni prima, e la favola di Andrea Stramaccioni, l'allenatore bambino, in nerazzurro finì lì. Tante le attenuanti per il povero Strama, a cominciare dall giovane età e dall'esperienza che ovviamente non aveva. Difatti adesso, con qualche anno in più e il pane duro di quella stagione amara ormai digerito, sta conducendo in maniera dignitosa l'Udinese verso una stagione all'altezza di quelle che potevano essere le aspettative di tifoseria e dirigenza nel precampionato.
Ora, riuscireste ad immaginare che nella storia della Serie A c'è stato un allenatore più giovane di Andrea Stramaccioni? E che suddetto allenatore, quando di anni ne aveva 34, riuscì a vincere il campionato proprio su quella stessa panchina sulla quale si sarebbe seduto, più di settant'anni dopo, lo stesso Stramaccioni?

Incredibile vero? Eppure questa storia non me la sono affatto inventata: l'autore di questa memorabile cavalcata ha un nome e cognome preciso, Árpád Weisz, che sono giustamente impresse a caratteri cubitali nella storia del calcio italiano. Ma solo da poco: per quanto può sembrare incredibile, per anni il nome di Árpád Weisz, ungherese classe 1896, è stato avvolto dalla nebbia dell'oblio. Dell'oblio e, mi si passi il termine, dell'omertà. Una colpa di cui si macchiò tutta l'Italia e il calcio. Una colpa che solo da poco Matteo Marani, giornalista e scrittore, ha provato a mondare alla sua maniera. Ovvero scrivendo un libro, "Dallo scudetto ad Auschwitz", col quale Marani ha dissotterrato dall'oblio Weisz e la sua incredibile storia, sportiva e non, e ce la racconta, in modo tale da non poterla più dimenticare.

Ho avuto il piacere di leggerlo, quel libro: è una storia semplice, bella, schietta e sincera. Una storia in cui il protagonista è Árpád Weisz, l'allenatore di calcio arrivato in Italia, a Padova più precisamente, dall'Ungheria, in cui nacque nella sua Solt. E da lì ha cominciato a insegnare calcio in una maniera che non potremmo definire in altri termini se non moderna, e fa nulla se questo aggettivo è ormai abusato. Le esperienze che maggiormente segneranno la sua carriera sono all'Inter, dove appunto vince lo scudetto 1929-30, il terzo della storia nerazzurra, e regala al calcio italiano il suo astro più fulgido: Giuseppe Meazza, scoperto proprio dall'uomo di Solt quando il Pepin era più balilla che mai, all'età di soli 14 anni; ma soprattutto Bologna, dove costruisce lo "squadrone che tremare il mondo fa", capace di vincere due scudetti e il Torneo dell'Expo di Parigi, battendo tra l'altro per 4-0 gli imbattibili inglesi del Chelsea.
Un'avventura vincente, anzi trionfale, quella dell'ungherese in rossoblu, che vede scorrere in maniera improvvisa e traumatica i titoli di coda.
Perché il vero protagonista di questa storia, Árpád Weisz, l'uomo, l'ungherese, il padre di famiglia, l'ebreo, scopre che in Italia non c'è più posto per lui, e deve andare via. In mezzo è passato un turbolento 1938, con le leggi per la difesa della razza che, di fatto, espellono gli stranieri ebrei residenti in Italia a partire dal 1919. Fra essi ci sono Weisz, sua moglie Elena, e i suoi figli Roberto e Clara.
E la storia di Árpád Weisz diventa in un certo senso quella di una partita: una partita che non può vincere. Weisz, un tattico finissimo e intelligentissimo, per la prima volta non ha le armi per contrapporsi al nemico: Árpád infatti è un allenatore, uno stratega che prepara la partita senza lasciare nulla al caso, prevedendo tutte le mosse avversarie con raziocinio, per colpirlo nei suoi punti deboli. L'avversario però non è prevedibile, non è razionale: è folle. È anzi la follia umana nella sua somma il vero nemico di Weisz: quella follia che non guarda in faccia nessuno perché è famelica, e ingurgita tutto, senza curarsi di niente e di nessuno. Quella follia che trasforma i bolognesi, gli italiani, gli europei tutti, facendoli regredire a uno stadio quasi bestiale, privo di amore, di razionalità, di buon senso.
Ed ecco che la storia di Weisz diventa quella di uno dei tanti esuli a cavallo degli anni Trenta/Quaranta, sballottati di qua e di là in fuga dalla Follia insinuatasi in chi dirige le sorti del mondo: Weisz è nella tollerante Parigi, che pure vivrà l'incubo dei carri armati di Hitler lungo gli Champs-Élysées, e di tanti collaborazionisti che si macchieranno dei crimini più orribili pur di vivere tranquillamente sotto quella bufera che adesso si abbatte sulla Francia. È la guerra, ed è l'uomo che prova a sostituire Madre Natura e la sua selezione: chi sa adattarsi ai cambiamenti, pur se assurdi, crudeli e arbitrari, sopravvive.
Poi Weisz va in Olanda, a Dordrecht, dove c'è una squadra da allenare, dei dilettanti da guidare verso le vette del calcio del paese dei tulipani. Paese che però è troppo vicino alla bocca del lupo, un lupo mai sazio.
E quindi la storia di Weisz diventa quella di un uomo che non ha scampo, di uno dei tanti che sono stati venduti al nemico, che viene prelevato, insieme alla sua famiglia, fin dentro la sua tana dal predatore, e trasportato di forza su un treno.
La storia di Weisz diventa quella di un numero: e no, non è quello cucito su una maglia da calcio, bello in vista sulla schiena dei calciatori che, con professionalità estrema, allenava. È un numero marchiato a fuoco sulla pelle, e da questo momento Árpád Weisz sarà solo quello, non più un uomo, un nome o una professione: solo il numero col quale è schedato, come una bestia destinata al macello. È questa l'ultima trasfigurazione di Árpád Weisz, e il suo macello è la stazione alla quale si ferma il treno sul quale è salito: Auschwitz.
"Dallo scudetto ad Auschwitz" di Matteo Marani quindi è la storia sì di un allenatore di calcio, ma soprattutto di un uomo fagocitato dalla Storia, come altri sei milioni di uomini senza nome né volto. Un uomo sepolto per decenni sotto le sabbie mobili dell'oblio, finché un grande "archeologo" non ha scavato in fondo, e ha scoperto questo tesoro. E lo ha raccolto in un libro, un prezioso forziere, che rende memoria e giustizia a Weisz, ciò che in vita non era riuscito ad ottenere.

BIBLIOGRAFIA:
Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, Roma, Aliberti, 2007, ISBN 978-88-7424-200-9.

IMMAGINI:
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