4 maggio: la fine di un sogno
Stasera avrebbe dovuto disputarsi Torino-Empoli, incontro valido per la 34ª giornata di Serie A. Avrebbe dovuto, se non fosse che oggi è il 4 maggio.
Se sei nato coi colori granata addosso, allora sai che si può giocare a calcio 364 giorni l'anno. Sempre, in pratica: tranne il 4 maggio. Il 4 maggio per il FC Torino e i suoi tifosi è un po' come il sabato degli ebrei: sacro e inviolabile.
Perché il 4 maggio si è tutti meno bambini, meno vogliosi di giocare a calcio, più anziani. Il 4 maggio è una di quelle date che ti ricorda come la vita possa segnare anche quando si tratta di un fantastico gioco.
Il 4 maggio 1949, per la Torino dell'epoca, fu la fine dell'infanzia, della spensieratezza, dei sogni: perché coloro che dispensavano sogni se ne erano andati.
Esagero forse? Vi rispondo direttamente e in maniera franca: non esagero affatto. Anzi, ogni parola che da adesso in poi spenderò per il Grande Torino sarà sicuramente insufficiente per descriverli.
Perché il Grande Torino non fu semplicemente una squadra di calcio: fu un gruppo di amici che amoreggiava col pallone, e con esso faceva ciò che voleva. Era una macchina perfetta costruita negli anni da Ferruccio Novo, il presidente, e da Ernesto Egri Erbstein, il direttore tecnico, un mago ungherese di evidente origine ebraica che masticava pane e pallone, e che coi calciatori ci sapeva fare.
Ma soprattutto c'erano loro: i ragazzi che ogni domenica vestivano la gloriosa maglia granata e scendevano in campo in giro per l'Italia a dare spettacolo e a insegnare calcio. Nessuno infatti era bravo come loro: ne era ben consapevole Vittorio Pozzo, l'ex tenente degli alpini che ancora aveva in mano la Nazionale azzurra, che nel maggio 1947, in una partita contro i
fortissimi ungheresi - che non erano ancora Aranycsapat, ma ci erano molto vicini - vestì d'azzurro e fece giocare dieci di quei giocatori granata: solo Sentimenti IV, portiere della Juventus, non giocava infatti nella squadra di Erbstein. Quella partita la giocò anche un giovane di appena vent'anni, di nome Ferenc Puskas, che rimase estasiato da quei fantastici calciatori, e li ricorderà per sempre.
I calciatori... e che calciatori! L'undici del Torino fu la primissima filastrocca calcistica della storia calcistica italiana, e forse la più amata. Prima di "Zoff, Gentile, Cabrini..." dell'estate '82, e prima ancora del celeberrimo "Sarti, Burgnich, Facchetti..." infatti, tutti in Italia conoscevano a memoria questa cantilena: "Bacigalupo, Ballarin, Maroso; Grezar, Castigliano, Rigamonti; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola". Undici ragazzi, tutti italiani. Uomini di altri tempi. Erano tempi duri per gli italiani quelli: le ferite della guerra erano ancora freschissime, e bruciavano in maniera lancinante. In un'atmosfera che non accennava ad alleggerirsi, ma che al contrario si faceva sempre più pesante, in uno scenario di povertà e disoccupazione diffusa, e di tensione sociale fra DC e PCI che tenne in sospeso l'Italia, fino a condurla sull'orlo di una guerra civile, sorsero dal mondo dello sport, l'unico che in questi casi può distrarre la gente dai propri problemi e preoccupazioni, e magari contribuire a sanare le ferite, delle immortali icone sportive.
Questo erano i ragazzi del Grande Torino: un simbolo di rinascita, di rifiuto della resa alle atrocità che aveva lasciato in eredità la guerra, un inno alla gioventù, alla forza e alla lealtà. Un messaggio di speranza, pur se nel "piccolo" (permettetemi il virgolettato) del mondo dello sport, di quelli che se Gennaro Iovine, il protagonista dell'immortale Napoli Milionaria di Eduardo, fosse stato un personaggio reale e appassionato di sport, vedendo questa squadra avrebbe esclamato che sì, la nottata stava passando.
E poi, cercando di ridurre tutto ciò solo alla sfera calcistica, una squadra eccezionale, che giocava un calcio avanti vent'anni rispetto a quello che di giocava nel resto d'Italia: un calcio che aveva saputo unire il Sistema che praticava Chapman all'Arsenal con l'aerosità di gioco tipica del calcio continentale. A difendere Bacigalupo, cui era affidata la protezione della porta, c'erano dunque i terzini Aldo Ballarin e Virgilio Maroso, oltre che lo stopper Rigamonti; più avanti i mediani Grezar e Castigliano, sulle fasce le ali Romeo Menti a destra e Franco Ossola a sinistra, Gabetto, l'anziano del gruppo (33 anni) al centro dell'attacco, e come mezzali gli ex-Venezia Ezio Loik e lui, il capitano Valentino Mazzola.
Tutti giocatori eccezionali, ma il numero 10 merita qualche parola in più: Mazzola era un atleta completo, dotato di corsa e capacità di resistenza sconosciute agli altri calciatori del periodo, condite da un formidabile tackle, una visione di gioco fuori dal comune, delle raffinate capacità tecniche e di palleggio e un tiro potente e preciso; delle doti che gli permettevano di essere determinante in ogni zona del campo. Un calciatore totale dunque, cui si aggiungevano un carisma da vero leader e un'attitudine alla lotta che hanno fatto di lui il calciatore italiano più completo di sempre.
Con questa squadra, del cui gioco Valentino Mazzola era il faro, il Torino divenne per cinque stagioni (che senza l'interruzione per cause belliche avrebbero potuto essere di più) il padrone assoluto del calcio italiano, vincendo nettamente ben cinque scudetti consecutivi (prima di allora c'era riuscita solo la Juventus negli anni '30 e, in anni recenti, l'Inter) e centrando la prima doppietta scudetto-Coppa Italia della storia (nel 1942).
Ma anche dir questo è riduttivo: perché il Torino non vinse semplicemente, ma dominò quei campionati dall'alto di un'abilità tecnica, un'organizzazione tattica e uno spirito di squadra che li rendevano nettamente la squadra più forte d'Italia. E, se la Coppa dei Campioni fosse già esistita, probabilmente avrebbe dimostrato di non aver rivali nemmeno in Europa.
Nonostante l'assenza di una competizione che esportasse il calcio di Mazzola e compagni in giro per il continente, la loro fama li precedeva ovunque, e il Torino veniva spesso invitato a partecipare a vere e proprie tournée in giro per il mondo, ospiti delle maggiori squadre del pianeta che volevano avere il privilegio di sfidare questi campioni, che tutti dicevano fortissimi, imbattibili.
In particolare quando Mazzola si rimboccava le maniche. E no, non è un'espressione metaforica: quando il Toro era in difficoltà, Mazzola davvero si rimboccava le maniche, poiché quello era il segnale convenuto con la squadra quando bisognava fare sul serio. Infatti nei quindici minuti successivi a quel gesto, in un periodo di gioco passato alla storia del tifo popolare come Quarto d'ora granata, il Torino pareva scosso da una corrente elettrica, e cominciava a giocare in una maniera divina, travolgendo i malcapitati avversari con una valanga di reti che di fatto decidevano la partita, dopodiché il Toro non faceva altro che amministrare il vantaggio accumulato.
Fu proprio la fame internazionale a costar cara alla squadra: dopo un'amichevole in cui l'Italia (o l'Ital-Toro, come avrete avuto modo di capire) travolse per 4-1 il Portogallo, il giocatore simbolo dei lusitani, il capitano del Benfica Francisco Ferreira invitò ufficialmente il Torino, e il suo amico Valentino Mazzola, a un'amichevole da disputarsi il 3 maggio 1949.
Il giorno successivo alla partita, il 4 maggio, pioveva e una spessa coltre di nebbia avvolgeva, in uno scenario che faceva pensare più al mese di novembre che agli inizi di maggio, la città di Torino. Un pomeriggio che, già dal meteo, sembrava triste. Nessuno immaginava però che sarebbe stato tragico: un rombo assordante squarciò il silenzio che aleggiava sulle campagne attorno alla collina di Superga, che sormonta il capoluogo piemontese. Rombo che altro non era che sinistro messaggero di ciò che stava per accadere: l'aereo Fiat G 212, le cui apparecchiature erano andate in avaria segnalando una quota di 2000 metri, mentre in realtà si trovava a soli 200 metri d'altitudine, si andò a schiantare contro il bastione che circonda l'omonima basilica, lasciando in esso un foro di quattro metri di diametro attraverso il quale l'aereo passò, per concludere il suo volo sulla spianata antistante la basilica.
La folla, come naturale, accorre, ma inizialmente non comprende: solo quando fra le lamiere contorte della carcassa del fu Fiat G 212 vengono rinvenute delle maglie granata con lo scudetto tricolore si comincia a capire a chi appartengono quei cadaveri, la gran parte dei quali è completamente sfigurata.
Il triste compito del riconoscimento spetta a colui che meglio conosce i passeggeri di quello sfortunato volo: ovvero Vittorio Pozzo, che a tale proposito racconta:

La morte di questa squadra fu un colpo durissimo per Torino e in generale per tutti gli italiani, sportivi o no: la fine di questa eroica squadra fu vista quasi come la fine della giovinezza, della spensieratezza, dei sogni: era il ritorno, quantomai brusco e violento, alla vita di tutti i giorni, quella che non ti regala niente, quella dalla quale tutti evadevano almeno per 90 minuti a settimana, quando scendeva in campo il Grande Torino per vincere ancora una volta, contro tutto e tutti.
Fu proprio per questi ultimi momenti di spensieratezza, di verginità quasi, che tutta Torino si riversò per le strade a rendere omaggio per l'ultima volta a questa squadra, quasi a dimostrare per l'ultima volta la loro immensa gratitudine nei confronti di quelli che, lo sanno tutti, d'ora in poi non saranno più solo una squadra di calcio (sempre se lo siano mai stati...) ma una leggenda senza tempo.
Così è stato, tanto che ancora oggi, dopo ben 66 anni da quel triste giorno, tutto si ferma in casa Toro, e non c'è posto per il calcio. Per quello, c'è tempo e ce ne sarà ancora. Il 4 maggio invece è un giorno solenne per tutto il calcio granata. Talmente solenne che tutti i tifosi italiani ancora oggi lo ricordano, anche se non ha mai visto giocare questa squadra. Credo che ormai siano in pochi quelli che ricordano perfettamente le gesta di questa squadra (parliamo di ottantenni o persone ancora più anziani), ma sono sicuro che fra venti, trent'anni, tutti i tifosi, granata e non, ricorderanno ancora la filastrocca calcistica più antica e più romantica di sempre: "Bacigalupo, Ballarin, Maroso; Grezar, Castigliano, Rigamonti; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola".
Il giusto riconoscimento per una squadra leggendaria, imbattibile per tutti: eccetto che per il proprio destino.
IMMAGINI E VIDEO:
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Se sei nato coi colori granata addosso, allora sai che si può giocare a calcio 364 giorni l'anno. Sempre, in pratica: tranne il 4 maggio. Il 4 maggio per il FC Torino e i suoi tifosi è un po' come il sabato degli ebrei: sacro e inviolabile.
Perché il 4 maggio si è tutti meno bambini, meno vogliosi di giocare a calcio, più anziani. Il 4 maggio è una di quelle date che ti ricorda come la vita possa segnare anche quando si tratta di un fantastico gioco.
Il 4 maggio 1949, per la Torino dell'epoca, fu la fine dell'infanzia, della spensieratezza, dei sogni: perché coloro che dispensavano sogni se ne erano andati.
Esagero forse? Vi rispondo direttamente e in maniera franca: non esagero affatto. Anzi, ogni parola che da adesso in poi spenderò per il Grande Torino sarà sicuramente insufficiente per descriverli.
Perché il Grande Torino non fu semplicemente una squadra di calcio: fu un gruppo di amici che amoreggiava col pallone, e con esso faceva ciò che voleva. Era una macchina perfetta costruita negli anni da Ferruccio Novo, il presidente, e da Ernesto Egri Erbstein, il direttore tecnico, un mago ungherese di evidente origine ebraica che masticava pane e pallone, e che coi calciatori ci sapeva fare.

fortissimi ungheresi - che non erano ancora Aranycsapat, ma ci erano molto vicini - vestì d'azzurro e fece giocare dieci di quei giocatori granata: solo Sentimenti IV, portiere della Juventus, non giocava infatti nella squadra di Erbstein. Quella partita la giocò anche un giovane di appena vent'anni, di nome Ferenc Puskas, che rimase estasiato da quei fantastici calciatori, e li ricorderà per sempre.




Con questa squadra, del cui gioco Valentino Mazzola era il faro, il Torino divenne per cinque stagioni (che senza l'interruzione per cause belliche avrebbero potuto essere di più) il padrone assoluto del calcio italiano, vincendo nettamente ben cinque scudetti consecutivi (prima di allora c'era riuscita solo la Juventus negli anni '30 e, in anni recenti, l'Inter) e centrando la prima doppietta scudetto-Coppa Italia della storia (nel 1942).
Ma anche dir questo è riduttivo: perché il Torino non vinse semplicemente, ma dominò quei campionati dall'alto di un'abilità tecnica, un'organizzazione tattica e uno spirito di squadra che li rendevano nettamente la squadra più forte d'Italia. E, se la Coppa dei Campioni fosse già esistita, probabilmente avrebbe dimostrato di non aver rivali nemmeno in Europa.

In particolare quando Mazzola si rimboccava le maniche. E no, non è un'espressione metaforica: quando il Toro era in difficoltà, Mazzola davvero si rimboccava le maniche, poiché quello era il segnale convenuto con la squadra quando bisognava fare sul serio. Infatti nei quindici minuti successivi a quel gesto, in un periodo di gioco passato alla storia del tifo popolare come Quarto d'ora granata, il Torino pareva scosso da una corrente elettrica, e cominciava a giocare in una maniera divina, travolgendo i malcapitati avversari con una valanga di reti che di fatto decidevano la partita, dopodiché il Toro non faceva altro che amministrare il vantaggio accumulato.


La folla, come naturale, accorre, ma inizialmente non comprende: solo quando fra le lamiere contorte della carcassa del fu Fiat G 212 vengono rinvenute delle maglie granata con lo scudetto tricolore si comincia a capire a chi appartengono quei cadaveri, la gran parte dei quali è completamente sfigurata.


"Su un lato del terrazzo, spazzando i rottami, qualcuno aveva già disposto quattro o cinque cadaveri. Erano i corpi, non martoriati, di Loik, di Ballarin, di Castigliano... Li riconobbi, e li nominai, sentendo uno dei presenti che aveva dato un'indicazione errata. Li conoscevo, oltre che dal viso, dagli abiti, dalle cravatte, da tutto. Fu allora che mi accorsi di un maresciallo dei carabinieri, che mi seguiva e prendeva nota di quanto dicevo. <<Nessuno meglio di lei...>> sussurrò, mettendosi sull'attenti. Fu allora, mentre rovistavo fra i resti di un po' di tutto che giacevano al suolo, che un uomo più alto di me e avvolto in un impermeabile, mi mise una mano sulla spalla e mi disse in inglese:<<Your boys>>, i suoi ragazzi. Era John Hansen della Juventus, accorso fin lassù. Non so se piangessi, in quel momento. Dopo sì."
La morte di questa squadra fu un colpo durissimo per Torino e in generale per tutti gli italiani, sportivi o no: la fine di questa eroica squadra fu vista quasi come la fine della giovinezza, della spensieratezza, dei sogni: era il ritorno, quantomai brusco e violento, alla vita di tutti i giorni, quella che non ti regala niente, quella dalla quale tutti evadevano almeno per 90 minuti a settimana, quando scendeva in campo il Grande Torino per vincere ancora una volta, contro tutto e tutti.
Fu proprio per questi ultimi momenti di spensieratezza, di verginità quasi, che tutta Torino si riversò per le strade a rendere omaggio per l'ultima volta a questa squadra, quasi a dimostrare per l'ultima volta la loro immensa gratitudine nei confronti di quelli che, lo sanno tutti, d'ora in poi non saranno più solo una squadra di calcio (sempre se lo siano mai stati...) ma una leggenda senza tempo.
Così è stato, tanto che ancora oggi, dopo ben 66 anni da quel triste giorno, tutto si ferma in casa Toro, e non c'è posto per il calcio. Per quello, c'è tempo e ce ne sarà ancora. Il 4 maggio invece è un giorno solenne per tutto il calcio granata. Talmente solenne che tutti i tifosi italiani ancora oggi lo ricordano, anche se non ha mai visto giocare questa squadra. Credo che ormai siano in pochi quelli che ricordano perfettamente le gesta di questa squadra (parliamo di ottantenni o persone ancora più anziani), ma sono sicuro che fra venti, trent'anni, tutti i tifosi, granata e non, ricorderanno ancora la filastrocca calcistica più antica e più romantica di sempre: "Bacigalupo, Ballarin, Maroso; Grezar, Castigliano, Rigamonti; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola".
Il giusto riconoscimento per una squadra leggendaria, imbattibile per tutti: eccetto che per il proprio destino.
IMMAGINI E VIDEO:
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