Il bello del calcio: un valzer neroazzurro al Prater

Vienna: città fra le più eleganti del Vecchio Continente, capitale di un piccolo paese immerso fra le Alpi, nel cuore geografico dell'Europa, ma che ancora non si rassegna a ciò che adesso è, memore del grande passato di capitale di uno degli imperi più grandi del mondo, leader dell'Europa fra XIX e XX secolo. In quel periodo Vienna era centrale non solo geo-politicamente, ma anche artisticamente: in particolare i viennesi avevano familiarità con la musica, ed è proprio da Vienna, e dalla famiglia Strauss in particolare, che nacque un ballo su ritmo ternario oggi noto ovunque col termine valzer.
Vienna però ebbe, finalmente, l'occasione per tornare ad essere l'ombelico del mondo: di un mondo nuovo, che solo allora stava iniziando ad assumere quell'importanza centrale nei cuori degli europei che adesso ha. Stiamo parlando ovviamente del calcio, che 51 anni fa scelse proprio Vienna per rappresentare il suo valzer più atteso: la finale di Coppa dei Campioni.

Il Prater di Vienna, oggi "Ernst Happel Stadion", sede della finale della Coppa dei Campioni 1964.


La finale, andata di scena al vecchio "Prater" di Vienna il 27 maggio 1964, fu una delle più belle e ricche di significato della ancora neonata competizione, che era arrivata alla sua nona edizione.
Il Real Madrid 1963-64: ovvero ciò che resta del Grande Real
anni 50'.
Merito di tanti fattori, ma specialmente delle due squadre che si affrontavano: da una parte il Real Madrid, capace di vincere le prime cinque edizioni della Coppa e tornato in finale dopo la sconfitta del 1962 contro il Benfica di Bela Guttmann. Una squadra leggendaria - arrivata a Vienna dopo una marcia inarrestabile fatta di 7 vittorie e una sola sconfitta contro i campioni in carica del Milan, e la bellezza di 27 reti segnate a fronte delle 8 subite - che però era alla sua ultima esibizione ufficiale: Di Stefano e Puskas, mattatori della precedente era del Grande Real, si avviavano a spegnere le prime quaranta candeline, e del vecchio ciclo era ormai destinato a restare solo Gento, il capitano, trent'anni al fischio di inizio del match. Ad affrontarla una squadra più giovane, sia per età media sia - soprattutto - per esperienza ai grandi palcoscenici europei, essendo la prima volta che si affaccia alla Coppa dei Campioni, e che ha dovuto faticare molto di più delle merengues per arrivare a Vienna.
La Grande Inter: la squadra più conosciuta d'Italia, escluso il
Grande Torino.
È una squadra che, come il Real, ha un suo totem, attorno al quale si erige, e come per i madrileni viene dall'Argentina: a differenza della Saeta Rubia (il soprannome di Di Stefano) però non gioca a calcio da tanto tempo, ed è da anni uno dei più conosciuti allenatori d'Europa: parliamo ovviamente di Helenio Herrera, il mago che Angelo Moratti ha voluto per costruire la sua Grande Inter.
Che se la chiamano "grande" un motivo ci sarà: in Italia va fortissimo (proprio nel 1964 perderà soltanto allo spareggio il secondo scudetto consecutivo, ai danni del Bologna di Fuffo Bernardini), e anche in Europa, pur faticando di più rispetto agli spagnoli, riesce a far fuori nell'ordine Everton, Monaco, Partizan Belgrado e Borussia Dortmund. Ma soprattutto,è ben guidata dal suo geniale e carismatico tecnico, che l'ha dotata di vere e proprie armi letali: innanzitutto è una squadra che subisce pochissimi gol, grazie a una difesa solida che prevede, oltre a degli implacabili marcatori come Burgnich e Guarneri e un mediano tuttofare come Tagnin, la presenza del libero, nella fattispecie Armando Picchi, che appunto non è impegnato in nessuna marcatura e gioca un paio di metri più indietro rispetto agli altri, in modo da poter al contempo sia mettere una pezza a qualunque eventuale errore dei suoi compagni, sia impostare rapidamente l'azione. Che aveva un solo, vero costruttore, Luis Suarez, galiziano di La Coruna che fu Pallone d'oro nel 1960 e aveva già fatto le fortune di Herrera - che lo ha voluto fortemente con sé all'Inter - al Barcellona. Suarez aveva a sua disposizione una classe cristallina e una visione di gioco degna del Pirlo anni d'oro, che gli permetteva anche con un sol lancio di 40 metri di innescare con estrema precisione gli attaccanti. Che erano tanti e diversi fra loro: c'era Jair e la sua velocità supersonica sulla fascia destra, Milani che con la sua forza fisica vinceva quasi tutti i duelli aerei che ingaggiava contro i difensori avversari, ma soprattutto c'era il piede sinistro di Dio, Corso, e Mazzola, che coi suoi inserimenti da dietro sapeva fare malissimo alle difese avversarie.
Facchetti: fu la chiave di
volta della finale viennese.
Ma la novità più grossa, quella che Muñoz, tecnico dei madrileni, temeva di più, si chiama Giacinto Facchetti: è un ragazzone di 22 anni alto quasi un metro e novanta, e sulle sue spalle ha stampato il numero 3. Facchetti però non è un terzino come tutti gli altri, come Burgnich: da ragazzo infatti, nelle giovanili dell'Inter, giocava attaccante con risultati anche buoni, tanto che il vero gioiello della Primavera era considerato lui, e non il "raccomandato" Mazzola. Herrera però ci vide ancora una volta più lungo degli altri, e spostò di parecchi metri più indietro il raggio d'azione del ragazzo. Col risultato di avere fra le mani il primo grande fluidificante in grado di percorrere in velocità tutta la fascia (a tale proposito: nel 1958 vinse i campionati studenteschi di atletica percorrendo i 100 metri in 11 secondi) della storia del calcio italiano, se non addirittura europeo: a giustificare la sua pericolosità intervengono i numeri: i suoi 59 gol in Serie A sono tutt'ora record imbattuto per un difensore nella massima serie.
Insomma, un attaccante fantasma a disposizione dei nerazzurri, a cui fare ricorso quando la partita si faceva più dura del previsto. Ed è un bel problema per Muñoz, che vede in lui il giocatore chiave da bloccare per tenere a bada la squadra nerazzurra. Proprio per questo l'allenatore dei blancos pensa di impostare una marcatura ad uomo su Facchetti, proprio come si fa con gli attaccanti.
Sarà la chiave della partita: lasciare un uomo fisso su Facchetti infatti significava concedere all'Inter la superiorità numerica nella zona nevralgica del campo, il centrocampo, dove le maglie nerazzurre superavano in numero quelle bianche. Ma non era solo questo: il fatto è che un esterno dedicato al numero 3 nerazzurro liberava da marcature Corso, ufficialmente ala sinistra come dichiarava anche il numero 11 sulle sue spalle, ma nella pratica un giocatore che partiva dall'esterno e si accentrava spesso, nel cuore della manovra, dove il suo sinistro era più utile. Lasciare Corso e Suarez, due fra i migliori costruttori di gioco dell'epoca, liberi di innescare coi loro lanci col contagiri le frecce nerazzurre Jair e Mazzola avrebbe potuto costar caro al Real Madrid, profetizzò Di Stefano nella riunione tecnica pre-partita con Muñoz e Santiago Bernabeu, il presidentissimo che volle lo Stadio Chamartìn che adesso porta il suo nome.
Inter-Real Madrid, finale di Coppa dei Campioni 1964. Nella foto i capitani Francisco Gento e Armando Picchi.
La partita andò esattamente come previsto dalla Saeta Rubia: mentre in fase difensiva Herrera fu bravissimo nell'assegnare le marcature, rigorosamente a uomo, su ognuno degli interpreti del Real, sfruttando anche la giovane età e la maggiore freschezza atletica dei vari Tagnin Guarneri e Burgnich rispetto a Di Stefano (letteralmente braccato dal biondo mediano alessandrino, che lo marcava stretto anche quando si abbassava fin quasi alla sua area di rigore per provare a costruire la manovra) Puskas e Gento, in attacco furono dolori per il Real, messo costantemente in difficoltà dalla libertà di azione dei due costruttori di gioco, che poterono innescare con frequenza e precisione i velocissimi attaccanti dell'Inter, mettendo in continua apprensione la difesa dei madrileni, non all'altezza del pacchetto offensivo.
Sandro Mazzola: hombre del partido al Prater.
Decisivo in particolare risultò Mazzola, protagonista di una particolare storia nella storia, che spesso racconta ancora oggi ai cronisti: Mazzola infatti, appena 22 anni al momento di scendere in campo al Prater, aveva una particolare ammirazione per colui che ancora oggi - nonostante i vari Pele, Cruijff, Maradona, Ronaldo, Messi che si sono avvicendati sulla scena del calcio mondiale - considera il più grande di sempre, Di Stefano. Un'ammirazione che spesso sfociava in vera e propria venerazione, tanto che Mazzola stette a fissarlo per dieci minuti buoni nel tunnel degli spogliatoi con gli occhi lucidi, non credendo quasi di aver realizzato il sogno di giocare contro il proprio idolo. Però c'è sempre una partita da giocare, e fu proprio il più anziano del gruppo, Luis Suarez, a richiamarlo all'ordine. E chi altri, se non lui, protagonista di mille battaglie contro i blancos quando giocava nel Barcellona, e col dente ancora avvelenato per la clamorosa eliminazione in semifinale di Coppa dei Campioni nel 1960? Lui, come Herrera - allenatore di quel Barcellona - teneva forse più di tutti a vincere, e per questo non ammetteva cali di concentrazione; perciò andò dal compagno dicendogli: "Noi andiamo a giocare, tu che fai, vieni?".
Suarez: leader tecnico e carismatico dell'Inter.
Venne a giocare Mazzola, altroché se non venne a giocare: al 43' minuto, dopo una delle sue proverbiali sgroppate, Facchetti serve palla proprio a Mazzola, il quale vede un piccolo spiraglio fra la difesa piazzata e con un gran tiro dalla distanza batte Vicente: 1-0.
Nel secondo tempo però il Real, pur bloccato dalle rigide marcature imposte da HH, fece sfoggio di tutta la sua classe, e si fa più volte pericoloso, con Felo ma soprattutto con Gento che addirittura colpisce il palo dopo una gran triangolazione al limite dell'area con Di Stefano. Al 62' però l'episodio che pare concludere la partita: Sarti la dà in maniera imprecisa a Guarneri, che tiene il pallone in campo rilanciando profondissimo alzando un campanile: il pallone arriva nella zona di Mazzola, che prima difende il possesso e poi salta con un pallonetto il difensore, poi vede e serve Milani, il quale si accentra e spara un rasoterra potente e preciso dal limite dell'area che va ad insaccarsi accarezzando il palo alla sinistra di Vicente: 2-0.
Il Real Madrid però non ci sta a perdere così, e al 70', sugli sviluppi di un calcio d'angolo da destra battuto col mancino da Puskas il pallone arriva nella zona di Felo, che controlla alla meglio con il destro e poi trova un grandissimo gol per riaccendere le speranze spagnole: 2-1.
Aurelio Milani: l'altro bomber nerazzurro in finale.
Le speranze effettivamente si riaccendono, e ci provano costantemente Amancio, Puskas e Felo, ma trovano chiuse le serrande: Sarti e Picchi infatti chiudono sempre lo specchio della porta, mantenendo così quel preziosissimo gol di vantaggio. Ma l'Inter sa bene che con quel gol non può stare tranquilla: il Real infatti è una squadra imbottita di campioni, che se ci crede davvero può pareggiare in qualsiasi momento con un guizzo di uno qualsiasi dei suoi campioni.
A guidare l'assalto è sempre un Mazzola in giornata di grazia, che prova con un tiro da lontanissimo che non sorprende Vicente ma che in un certo senso "risveglia dal torpore" i suoi compagni.
Ma la partita sta per concludersi, nella stessa maniera in cui è cominciata: ovvero con il Real Madrid magari più forte psicologicamente, sicurissimo dei suoi mezzi, e con un'Inter arrembante che prova a sfruttare le leggerezze che quest'aura di imbattibilità possono causare nei campionissimi spagnoli. Si può infatti riassumere così la storia del terzo gol al 77' minuto: Milani lancia in profondità dove però Santamaria, difensore uruguaiano campione del mondo nel 1950, è in netto vantaggio sull'avversario. Santamaria ha tutto il tempo per controllare il pallone, girarsi e rilanciare: invece prova il colpo a effetto per i fotografi, e cerca di accorciare i tempi rimandando via il pallone alle sue spalle tramite una rovesciata. Di questa leggerezza imperdonabile ne approfitta l'onnipresente Mazzola (e chi sennò?) che raccoglie il pallone e insacca facile facile il 3-1 che chiude le ostilità.
Perché da lì in poi non succede più nulla a Vienna, ed è solo un'attesa di 13 minuti fino al fischio di Stoll, che consacra l'Inter campione d'Europa per la prima volta nella sua storia.
Inter sul tetto d'Europa: viene portato in trionfo l'artefice di quella squadra: il 
presidente Angelo Moratti, padre di Massimo che seppe replicarne l'impresa.
Una grandissima vittoria per la squadra di Herrera, che seppe esprimere in finale un calcio più veloce, più intelligente, più atletico ma soprattutto più efficace rispetto a quello giocato dal Real Madrid, ormai alla fine di un'era (a Di Stefano addirittura non verrà rinnovato il contratto, con la Saeta Rubia che si accasò poi all'Espanyol).
Di Stefano e Puskas: i grandi sconfitti.
Un calcio che fu tale anche perché l'Inter poté contare sul Mazzola delle grandi occasioni, giocatore fra i più forti d'Europa per la capacità di abbinare corsa, intelligenza tattica, tempo negli inserimenti e fiuto del gol. Lo riconobbero anche i grandi avversari, Di Stefano e Puskas. Ricordate la storia nella storia di Mazzola? Non è ancora finita: dopo la partita Mazzola prese coraggio e si avviò verso i rivali per chiedere la maglietta al suo idolo Di Stefano. Prima però che potesse farlo lo intercettò l'altro grande campione, Puskasil capitano della squadra d'oro ungherese dei primi anni '50, che gli dice: "Ho conosciuto tuo padre - un allora giovanissimo Puskas infatti era in campo quando dieci undicesimi del Grande Torino vestirono la maglia della nazionale e sconfissero l'Ungheria - e oggi ho capito che sei degno di lui". Il riconoscimento più bello per Sandrino, che suo padre Valentino a stento lo ricorda ma che è sempre stato presente come un ombra lungo tutta la sua carriera, troppo spesso paragonata a quella formidabile di quel grandissimo talento che fu suo padre; e la maglia che alla fine portò a casa fu la 10 dell'ungherese, sconfitto da entrambi i Mazzola, battuto dalle squadre italiane più forti di sempre. Perché quella sera ci fu un ideale passaggio di consegne: il Grande Real abdicò defitivamente, e quell'Inter che negli anni successivi fu in grado di ripetersi in Europa, in Italia e anche nell'Intercontinentale, divenne la Grande Inter, entrando in quell'Olimpo tutto italico dove fino ad allora si trovavano solo i granata. Con un nome in comune, quello dei Mazzola, perché a volte i latini hanno ragione: qualis pater, talius filius.

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